venerdì 16 novembre 2012

Senza perdonarsi mai

Genesi.
Il 16 aprile JVH entrò nel labirinto degli specchi. Un normalissimo labirinto degli specchi. Dopo un primo girovagare curioso la noia tornò a impossessarsi delle sue lunghe, sottili membra. Si soffermò davanti a quello che sembrava uno specchio (poteva essere un vetro?) e rimirò la sua immagine riflessa. Senza un motivo alzò lo sguardo alla destra dell’immagine, dove un’altra immagine, sempre un suo riflesso, lo osservava con lo sguardo che lui sapeva essere il suo. L’animo razionale riprese il sopravvento. Fissò il pavimento, si concentrò, spostò il piede destro indietro di una trentina di centimetri. Il sinistro raggiunse il destro. Poi compì il tragitto inverso. Finché fu sicuro: il pavimento, in legno consunto, aveva una leggera inclinazione (non più del due per cento, calcolò). La corona esterna degli specchi si trovava così più in basso di pochi centimetri rispetto a quella interna. Questo spiegava il perché le immagini dietro il primo riflesso si trovassero più in alto di quella primaria. Inoltre il labirinto era stato costruito in modo che gli specchi non fossero fra loro paralleli, aprendo la via, dentro ogni specchio, a migliaia di altri specchi più piccoli, generando migliaia, forse milioni di riflessi identici. Il percorso di queste immagini si biforcava e biforcava e biforcava a ogni incrocio correndo verso l’alto e verso destra (o sinistra). Compiendo curve ben oltre la cornice degli stessi specchi, ben oltre il luna park che conteneva il dedalo, ben oltre la città che lo ospitava, il pianeta su cui si trovava, l’universo. Strano posto per riflettere sul mondo, pensò. O forse il miglior posto: un posto che riflette, in fondo. Guardando nuovamente le immagini che continuavano ad aumentare (non aumentavano, era la sua percezione a rintracciarne di nuove a ogni nuova ricerca, in questa corsa senza fine che stava effettuando) gli sembrò di avvertire il precipuo rumore di ogni immagine, qualcosa che sta in mezzo al suono del respiro, del battito cardiaco, del formarsi delle gocce di sudore sulla fronte, del ritmico crescere, lentissimo della peluria sul volto. In quella cacofonia si trovò a rimirare il suo volto riflesso. Il volto di un uomo un milionesimo di secondo più giovane (e quindi più inconsapevole) di lui, di quello che era adesso. Un adesso superato nel momento che lo sguardo si posò sulla seconda rappresentazione di sé stesso. E ancora più remoto quando raggiunse la terza, la quarta, la quinta e così via fino a perderne il conto e il significato. Si trovò a pensare quali infinite possibilità si prospetterebbero a un uomo che potesse scegliere liberamente tra le sue infinite rappresentazioni. Ricercò il suo essere migliore in mezzo alla moltitudine che restava immobile pur continuando a moltiplicarsi. Credette di intravederlo tra la quarantesima e la cinquantesima replica ma, immediatamente, quell’uomo migliore annegò in mezzo ad altri quarantamila, cinquantamila volti tutti uguali e contemporaneamente tutti dissimili. Di quanto era invecchiato davanti a quello specchio? Quanto più giovane era l’immagine in fondo alla fila, che continuava ad allontanarsi dall’origine a una velocità incalcolabile, inconcepibile? Era ancora lui? Oppure ogni immagine era un lui diverso che stava generando? Milioni e milioni di altri sé, ognuno con la propria storia, impercettibilmente diversa, che esistevano a tutti gli effetti. Almeno finché fossero stati sorretti dalla sua volontà di farli esistere. Aveva il diritto adesso di andarsene e di esaurirli, estinguerli, farli sparire? Non avrebbe forse dovuto aspettare finché l’ultima immagine non avesse percorso tutto il suo tragitto fin oltre l’ultima immagine percepibile, finalmente affrancandosi dall’esistenza dell’originale e potendo, per la prima volta totalmente libera, scegliere se scomparire o continuare la sua vita oltre le pastoie che lui, in quanto partenza, gli aveva imposto? Magari in un universo diverso che le sue limitate capacità non riuscivano a percepire ma che per quelle immagini era la fine del percorso. O l'inizio.
Le immagini continuavano a generarsi, l’ultima diversa dalla precedente, riproducendo da principio un quasi inesistente gesto, un pulsare nervoso di una vena sull’avambraccio, un movimento orripilatorio della peluria sulla mano sinistra. Movimenti, gesti, palpiti che erano già superati nel momento in cui ne aveva percezione. La prima immagine aveva ormai dieci, forse venti anni meno di lui adesso. E ammesso che esistesse la fine del percorso ne mancavano altrettanti (come minimo) perché si liberasse e iniziasse a invecchiare autonomamente. E come percepivano loro il tempo? Anche per loro si dilatava o restringeva e perdeva di significato come accadeva adesso a lui?
Fu così che JVH si perse.
Deprivazione.
Specchiandosi notò quanto il suo volto portasse il segno degli anni. Occhiaie croniche. Marcus Von Hommenstal dormiva pochissimo. Quando giungeva la notte si stendeva sul grande letto con il baldacchino, dono ricevuto da sua zia la duchessa, chiudeva gli occhi e simulava il sonno.
(.).
 Senti, che io ho bisogno di un po' di pulizia nel nostro rapporto, mi sembra il caso di parlare con te prima di iniziare. Perché già la scrittura si presta a un sacco di interpretazioni e tu ci vedrai un sacco di cose che io non avevo la minima intenzioni di metterci. Se non spazziamo il campo subito da un sacco di equivoci preventivi non andiamo da nessuna parte. Perché anche questa è una delle cose sbagliate che faccio. Perché io voglio sempre andare da qualche parte. E questo è un libro particolare per me. Perché sto riprendendo contatto con la mia anima da "bar" per dirla così. Ma questa è una cosa che capisce solo Lara, tu accontentati di crederci. Ci sono alcune cose che devi sapere. Prima di tutto abbandona l'idea dell'autobiografico. In quello che scrivo c'è raramente qualcosa di autobiografico. Ovviamente parlo di me. E non solo perché sono un egocentrico malato di onnipotenza. Ma anche perché è l'unica cosa che conosco davvero bene. Poi c'è il discorso della convinzione che, in qualche modo, nel particolare ci sia l'universale. Quindi che quello che sento, provo, mastico io valga anche per tutto il resto dell'umanità. Abbandonato l'obiettivo di essere faro o esempio mi resta il mostrare. Questo è l'obiettivo. Questo porta alla domanda principale di tutto il soliloquio: perché? Io non lo so più. Tempo addietro ti avrei dato un sacco di motivazioni. Adesso che le mie convinzioni vacillano, che il mio mondo imperfetto ma confortevole si sta sfaldando non sono più in grado di farlo. E' proprio un fatto di motivazioni e significati. Tutto quello che sono (un prodotto di esperienze, niente più) mi dice che senza queste la comunicazione, in ultima analisi la vita stessa, non ha senso. Nonostante questo vivo. Forse il senso sta più in là. O forse, ho sentito dire da qualcuno, un senso non c'é. Resta il fatto che sento il bisogno di dirtelo. Nessun insegnamento, ovvio. Nessun significato nascosto, nessuna chiave segreta o livello di lettura profondo. Magari un livello di lettura neanche tanto profondo c'é. Resta il fatto che, non per merito mio, il velo è stato squarciato ancora una volta. E di nuovo, fuggevole, è passata la luce. E io adesso l'ho vista anche se ormai già perduta. Di questo vorrei dire. Una testimonianza in qualche modo. Come posso dirti? Un po' come quando, smesso un abito indossato a lungo, una divisa per gli altri, diventata quasi una pelle, ti volti a guardarla con quel misto di rammarico e odio, per quanto facile era indossarlo e quanto lo sarebbe ancora, per quanto sarebbe semplice l'indulgenza e quanto più leggero il fardello.
Deprivazione (II).
Stavo dicendoti di Marcus Von Hommenstal. Che dormiva pochissimo. Che si stendeva sul grande letto con il baldacchino, dono ricevuto da sua zia la duchessa, chiudeva gli occhi e simulava il sonno.
Aveva cominciato a farlo molti anni prima. Allora abitava ancora con la duchessa, donna carissima e dolcissima, nella grande casa che lei aveva ereditato dal marito scomparso un giorno di febbraio, freddo e grigio. Uno di quei giorni in cui sembra sbagliato anche morire. Anche quando arriva dopo un’agonia lunga da sembrare interminabile. Anche quando è liberazione per te e per quelli che restano. Anche quando è logica, netta, pulita. Un giorno così insomma. Bello anche. E un po’ dolce.
Da quel giorno in febbraio iniziò a dormire meno. In principio fu un limitare cosciente le ore del sonno. Perché il tempo speso in meditazioni sembrava più importante. La morte dello zio lo aveva fatto precipitare in una condizione strana, inusuale. La perdita dei genitori, avvenuta quando non aveva compiuto il secondo anno di vita, era troppo remota per portarne un dolore. Non aveva fatto in tempo ad avvertirlo e dopo, quando gli anni lo avevano formato, si era rivelato troppo tardi per staccarlo dalle foto ingiallite e sentirne la mancanza.
La famiglia del duca, fratello di sua madre, era stata un nido caldo negli anni dell’infanzia. E confortevole in seguito. Lui, lo zio, era un uomo docile. Affabile e generoso. Aveva sempre dimostrato un affetto vivo per Marcus Von Hommenstal, sostituto del figlio mai avuto per motivi che non dovevano essere indagati. Certi lampi negli occhi della zia sconsigliavano di farlo talvolta. Sostituto dicevamo. Surrogato.
Gli animali si comportano nello stesso modo: l’orfano viene accolto nella nidiata più vicina, non necessariamente per sangue. Ma gli animali possiedono un’anima selvatica. La nostra civilizzata. E ci porta lontano dalla terra e dall’istinto. Quanto l’affetto è vestito? Quello che ci aspettiamo da noi?
La malattia del duca aveva allontanato come oziose queste riflessioni: la carne prese il sopravvento sullo spirito e lo spirito di appartenenza sulla ragione. Quell’uomo forte e robusto aveva iniziato a incanutire, sfogliarsi, creparsi. Aveva tentato di resistere, testardo. Dato che era impossibile vincerla si limitò a opporre resistenza, fermo sulla linea, in attesa che qualcuno decidesse di arrendersi: o lei o lui.
Aveva vinto lei, ovviamente. Ma l’atteggiamento e la forza dello zio avevano reso il tragitto straziante, lunghissimo, doloroso. Solo parzialmente lenito dalla morfina, per fornirgli un altro surrogato, di pace stavolta.
Poi era arrivato il febbraio. E quel giorno dolce.
E i successivi, con le visite e le parole inutili. E la forma dignitosa. La fiera sopportazione della perdita, il conforto offerto e dato. Gli abiti neri e le fascette al bicipite all’altezza del cuore. Le parole davanti alla pietra e le lunghe serate con la zia che, inspiegabile ai suoi occhi, sistemava le rose nel vaso grande.
Aveva sempre riservato un amore particolare per quei fiori. Quella donna, altera anche, ogni martedì e venerdi, smessi gli abiti sobri ed eleganti del suo normale vivere, si infilava in una camicia stazzonata di lino e dei pantaloni di gabardine da uomo, un paio di guanti da lavoro e, fornita di cesoie e di un coltellino da taglio, andava a occuparsi delle rose. Da sempre per quanto era possibile ricordare a Marcus Von Hommenstal.
Anche in quel periodo, in cui tutte le abitudini si erano sovvertite, in cui gli umori vaganti aveva saturato l’aria impedendo il normale scandire del tempo, aveva mantenuto tenacemente l’attaccamento a quel rituale. Una fuga forse.
Lui invece, così poco interessato a qualsiasi cosa, si era trovato in campo aperto. Aveva dovuto fare i conti con gli effetti della dipartita del duca. Aveva dovuto pensarci. E quello che aveva visto non gli era stato di conforto. Aggiunse una foto ingiallita fra quelle già presenti sul piano del suo studio. E si trovò a non riuscire a staccare niente neanche da quella.
La zia sopravvisse meglio, apparentemente almeno. Il lutto permanente in cui decise di vivere non le impedì di tornare alla vita civile. Le attività benefiche beneficiarono di un suo rinnovato entusiasmo. Le sue energie tornarono rapidamente e, quasi a riempire il vuoto, altre attività ravvivarono la casa. Compreso una fastidiosa riunione settimanale di suffragette durante la quale Marcus Von Hommenstal, sentendosi minacciato oltre che infastidito, prese l’abitudine di frequentare la vicina casa del dottore. Uomo gioviale e buon scacchista divenne la cosa più simile a un amico che avesse mai immaginato.
Risveglio 7665.
Contrariamente a tutta la letteratura in merito non c’è nessun lento svelarsi. Nessun progressivo riappropriarsi dei sensi. Dall’assoluto buio il professor Walton si ritrova improvvisamente nel mondo. La prima sensazione che riceve dall’esterno è la ruvidità amidata del lenzuolo su cui è sdraiato. Ogni particolare della stanza gli appare nitido e definito. Probabilmente è la luce bianca, sicuramente neon, che rende tutti gli spigoli evidenti, tutte le ombre marcate.
Si volta verso destra e osserva un ambiente completamente vuoto. Le pareti sono bianche, lattate. Sembrano composte di un unico pezzo di ceramica. Ovviamente, conclude, è un’impressione. E’ convinto che, avvicinandosi, capirebbe esattamente la natura di quel rivestimento. Soltanto un grande specchio occupa una significativa porzione della parete alla sua sinistra.
E’ nudo.
La sua mente, non ancora completamente sveglia, inizia a processare alcune domande. “Dove sono?” è la prima. Per quanti sforzi faccia non riesce a ricostruirlo.
“Perché sono nudo?” è la seconda. Anche per questa non trova risposte.
Decide di muoversi, alzarsi dalla lettiga su cui si trova. I movimenti sono lenti, circospetti. Teme di sentire le gambe bloccate. E’ una cosa che gli avviene spesso negli ultimi giorni. La malattia sta causando una degenerazione sempre più rapida.
Ecco. Il primo particolare veramente nitido. La malattia. Si stupisce di ricordarne la definizione perfettamente. Ricorda addirittura il foglio su cui era battuta. Una fotografia, quasi.
“L'Adrenoleucodistrofia (ALD) è una malattia metabolica rara, trasmissibile per via ereditaria recessiva. Il difetto genetico risiede sul cromosoma X e può essere trasmesso dalla madre ai figli. La madre e le figlie femmine, che ereditano la mutazione, non si ammalano, sono cioè portatrici sane. I figli maschi, invece, (avendo un solo cromosoma X) che ereditano il gene mutato sviluppano la malattia. La ALD è caratterizzata da progressiva demielinizzazione cerebrale e atrofia delle ghiandole surrenali che portano, più o meno lentamente, verso uno stato vegetativo.
Un difetto metabolico nelle reazioni di ossidazione degli acidi grassi a catena molto lunga (VLCFA) porta al loro accumulo nel sangue e nei tessuti. Queste molecole hanno un effetto tossico diretto sulla mielina, la guaina protettiva che riveste le strutture del sistema nervoso, che ne causa la progressiva distruzione. Tuttavia le lesioni della sostanza bianca (mielina), evidenziabili con la TAC e la Risonanza Magnetica, non sono sempre sufficienti a spiegare la gravità dei danni neurologici indotti dalla malattia.
La forma dell'adulto, detta anche Adrenomieloneuropatia (AMN), rappresenta il 21% dei casi ed è più frequente tra i 21 e i 35 anni. Si manifesta con paraparesi lentamente progressiva, incontinenza o ritenzione urinaria, impotenza, neuropatia periferica che colpisce soprattutto gli arti inferiori. Nel 20-30% dei casi compaiono anche demenza o psicosi, mentre le alterazioni delle ghiandole surrenali sono presenti nel 70% dei soggetti.”
Demenza. Deve essere questo. Spiegherebbe perché si ritrova qui, nudo. E perché non riesce a focalizzare i pensieri.
Lo teme da sempre. Il momento in cui tutti i suoi studi, tutto il lavoro che ha brillantemente portato avanti per creare la cura, verranno vanificati dai suoi limiti fisici. Ha sempre creduto di fare in tempo. Avrebbe vinto. Invece non era così. La malattia stava vincendo. Automaticamente, senza aver dovuto fare alcun richiamo mentale, si trova in mente il seguito dell’articolo:
“Fino a una ventina di anni fa le cure erano solo sintomatiche, volte cioè ad alleviare i sintomi neurologici e a compensare l'insufficienza surrenalica.
Oggi si cercano soluzioni in grado di rallentare la progressione della malattia, così da ridurne gli effetti invalidanti. Questi ipotetici trattamenti sono ancora in fase sperimentale e i risultati sono controversi, a volte incoraggianti altre volte negativi.
All'olio di Lorenzo, di cui si parla in un articolo a parte, si affiancano simvastatina e lovastatina. Si tratta di due statine, farmaci abitualmente utilizzati per ridurre il colesterolo, capaci di ridurre anche i livelli plasmatici di VLCFA. Se e come questo possa migliorare la prognosi della malattia, però, non è ancora stato dimostrato.
Altri tentativi ancora da valutare riguardano il trapianto di midollo osseo, che è stato effettuato su pazienti selezionati, con danni neurologici in fase iniziale, ma i cui risultati sono controversi. Occorrerà attendere alcuni anni per valutarne l'effettivo impatto sulla progressione della ALD.”
Le gambe rispondono perfettamente. Rincuorato si siede sulla lettiga con le gambe penzolanti. Prima di allungare il piede verso il pavimento si trova a temere il contatto con quella superficie che immagina freddissima. Invece è tiepido.
Tre cauti passi. Poi torna a voltarsi verso la lettiga. Vuota e linda come il resto della stanza. Sotto, nel ripiano portaoggetti, un pacco. Alla ricerca di un contatto con la realtà, il professor Walton afferra il pacco e lo apre. Vestiti. Un paio di pantaloni neri e una camicia azzurra. Calze e scarpe con i lacci. Biancheria.
Si veste lentamente osservandosi attentamente attorno. Una volta vestito decide di ispezionare la stanza nella quale si trova. Non ricorda di averla mai vista prima. Il materiale di cui sono costituite le pareti sembra effettivamente ceramica. Copre tutta la stanza ad eccezione di alcune feritoie scure, circolari, non più grandi di un piattino da caffè, in alto, al centro di ogni parete. La ceramica copre il pavimento, il soffitto e le pareti. Ispezionando la terza parete trova quella che sembra essere, pur priva di maniglia o di qualsiasi meccanismo di apertura, una porta. Toccandola la vede aprirsi lentamente. Per qualche motivo che non sente il bisogno di indagare, ha la certezza che si apra grazie a martinetti idraulici.
Indugia prima di uscire. Aprendosi, la porta ha permesso all’aria esterna, più fredda, di insinuarsi nella stanza. Per qualche strano meccanismo ancestrale Walton associa più freddo a peggiore. Deve far ricorso alla sua razionalità per sconfiggere quella sensazione e forzarsi a uscire. Niente nella stanza lo aiuta a raccogliere le idee. Probabilmente l’ambiente esterno risulterà più familiare. Comunque non più alieno di questo.
Secondo particolare nitido. Artide. Siamo in Artide. Ne è certo. Il complesso, in cui presume di trovarsi ancora, è un laboratorio artico della Cxxxx. La casa farmaceutica sponsorizza molti progetti di ricerca. In quel complesso si ricerca la cura per le malattie genetiche. Ecco perché si trova lì. Un ricercatore. Ecco cos’é.
Improvvisamente, con la stessa nettezza del ricordo precedente, quasi un interruttore fosse stato girato nella sua testa, attinge ai ricordi della sua carriera accademica fino al suo arrivo lì. Sempre ammesso che si trovi ancora dove crede. Comincia a sospettare che sia così. Intravede, superata la porta, un locale che forse conosce.
La stanza è significativamente più grande di quella in cui si trovava. La ventata di aria fredda che aveva avvertito doveva esser stata determinata dal movimento della porta perché non sente differenza di temperatura. Gli ambienti sono riscaldati.
Terzo particolare nitido. Ci sono cinque persone qua dentro. Cinque ricercatori. Richiama con facilità i nomi. Walton, Byron, Shelley, Caputo e Polidori.
Dove sono gli altri?
Dal “diario”. Annotazione del 12 novembre 1999. Estensore: Walton
“Il lavoro che sto portando avanti con Caputo mi stanca sempre di più. Trascrivere ogni piccolo particolare riguardante la mia vita, ogni barlume della memoria è estenuante. La malattia sta progressivamente accelerando e ho difficoltà a concentrarmi. Se non fosse per la dedizione dimostrata dal mio buon amico (sono arrivato a considerarlo questo) avrei rinunciato da tempo. Tutti questi ricordi mi saranno inutili, lo so. Ma lui dice che non c’è altro modo. E, pazientemente, si siede nella poltrona in mezzo a tutti i suoi apparecchi e mi ascolta mentre rileggo. La sua presenza è per me irrinunciabile.
Contemporaneamente il lavoro di Byron ha subito una brusca accelerazione. Il procedimento è stato perfezionato. Così afferma. Ieri mi ha fissato con quello sguardo freddo mentre rientrava silenzioso dall’ennesima sigaretta: “Sono pronto. Io e Percy stiamo aspettando voi.”
Comincio a sperare che tutto il lavoro che abbiamo svolto possa davvero salvarmi.
Simulatore.
La vita nella grande casa aveva ripreso una sua logica, con i suoi nuovi ritmi scanditi dall’assenza anziché dalla presenza del duca. I suoi lunghi corridoi, affollati di specchi, orfani dei passi del padrone di casa, si blandirono, tornando a riempirsi, con quelli, assai meno cadenzati, dei sopravvissuti.
I due superstiti abitavano le sue stanze sfiorandosi nei momenti dedicati. Lei, con il suo piglio da madre vicaria, aveva continuato a mostrargli il suo affetto. Le era decisamente affezionato, per quanto le ultime scoperte in fatto di sentimenti cominciassero a fargli dubitare del reale significato di tutto questo. Lei era la donna che lo aveva cresciuto. Una donna che lo aveva consolato dopo le tristezze degli anni bambini. Che lo aveva difeso contro ogni evidenza quando aveva combinato qualche idiozia infantile. Che lo amava in modo limpido, puro e sostitutivo. L’unica persona con cui non aveva mai avuto una parentela era adesso l’unica persona il cui amore era diretto verso di lui.
Questo non le vietava di risultare fastidiosa talvolta. E invadente. Quando il sonno aveva smesso di visitarlo, lui aveva cominciato a scrivere per riempire quelle lunghe ore solitarie. Trovava quel silenzio, quell’oscurità spezzata dalla flebile luce della candela sullo scrittoio, stimolante. Migliaia di immagini affollavano la sua mente. Viaggiava in paesi che non aveva mai visto e compiva atti che la sua naturale mansuetudine non gli avrebbe mai consentito. Ma tutto questo non poteva sfuggire all’occhio attento della zia. Dopo un breve periodo, durante il quale la brava donna aveva considerato questa sua nuova abitudine come una delle tante stranezze dei giovani, il protrarsi di quell’insano uso la aveva spinta a consultare il medico di famiglia: un Von Hommenstal deve dormire. Ne andava del prestigio della casata.
Seguirono mesi di tisane di mirtillo, tisane di mirtillo e cedro, tisane di mirtillo e limone, tisane di mirtillo e salvia, tisane di mirtillo e fragole. La duchessa adorava i mirtilli. Marcus Von Hommenstal molto meno. Quindi, onde evitare una orribile morte da eccesso di mirtilli, decise di simulare il sonno.
Effettivamente ebbe a giovarsene. Si rese conto che aveva più energie al mattino, quando fingeva di risvegliarsi. E la zia ne guadagnò in allegria. Suo nipote rispondeva nuovamente ai canoni che il rango richiedeva.
Con il passare del tempo affinò il rituale. Si spogliava e indossava pigiama e veste da camera. Quindi passava un’ora a leggere nello studio, sotto lo sguardo affettuoso della zia. Poi si ritirava in camera e si stendeva sul letto. Sapeva che la zia lo controllava dalla serratura. Talvolta entrava con qualche scusa. Così fingeva di dormire.
Sia ben chiaro, ogni tanto la finzione sconfinava in sonno vero e proprio. Ma sempre più raramente con il passare degli anni.
Decise di parlare di questo suo interessante stato con il suo compagno di scacchi. Erano già alcuni mesi che non dormiva. Un viandante dei pensieri. Insonne. La cosa parve colpire molto il medico che gli rivolse domande di ogni genere. Quando vide che il suo tono virava verso una decisa preoccupazione decise di dissimulare il tutto parlando di uno scherzo. Possibile che proprio lui, un medico, avesse creduto a una fandonia del genere? Da quel preciso istante la sua simulazione di sonno prese un significato più ampio. Non doveva farlo per lenire le ansie della zia. Ma quelle di tutti. La cosa lo infastidì. Perse la partita. E si allontanò dalla casa del suo esserepiùsimileaunamico con la certezza che quella sarebbe stata l’ultima visita.
Un carattere schivo non lo portava a frequentare i giovani del paese vicino. Pur cordiale e affabile, gli insegnamenti del duca erano stati, in questo senso, più che efficaci, non trovava alcun motivo di attrattiva nei suoi coetanei. Né negli altri esseri umani in genere. La grande casa, fuorimano, non era molto frequentata, a eccezione delle amiche della zia che non riscuotevano la sua simpatia. Questo lo rendeva sempre più solitario.
Era un bell’uomo. Ammirato dalle ragazze che frequentavano il salotto della zia. In più questo alone di mistero, questo suo starsene appartato, a girovagare nel grande giardino, ne faceva oggetto di interessata conversazione tra loro. Spesso, sotto insistenza della duchessa, conosceva alcune di esse. Ma il suo disinteresse per loro era tanto evidente da scoraggiare un secondo incontro. Soltanto una volta qualcosa, un movimento delle spalle o qualcosa di irregolare nelle linee che congiungono il collo alla testa, aveva risvegliato un cauto interesse. La ragazza, molto giovane, si chiamava Ester. Per quanto avesse cercato di farlo non riuscì mai a trattenerne il cognome. Per alcuni mesi trovò piacevole passeggiare per il parco con lei. Possedeva un’intelligenza vivace anche se rozza e un’onestà disarmante. Aveva pensato di chiederle di giocare a scacchi con lui. Ma, sarebbe stato sconveniente, pensò.
Durante una di queste passeggiate, doveva essere luglio perché la canicola rendeva difficile sopportare i vestiti, lei affrontò un discorso che Marcus Von Hommenstal temeva sarebbe prima o poi stato affrontato. E ancora si trovò a dover riflettere: cos’erano stati questi mesi trascorsi se non un educato e cortese, corretto gli venne da pensare, corteggiamento? Non aveva semplicemente agito in corrispondenza con quello che sapeva doveva essere il suo atteggiamento in una situazione simile? E lui era effettivamente interessato a lei?
Quando la sera la riaccompagnò alla macchina la salutò con il solito bello stile, riuscì a risultare arguto e divertente. La fece ridere di gusto ed ebbe l’occasione di notare ancora quel qualcosa che non sapeva dire cosa fosse: forse un movimento delle spalle o qualcosa di irregolare nelle linee che congiungono il collo alla testa. Non avrebbe mai più avuto l’occasione di scoprirlo.
Dal “diario”. Annotazione del 13 novembre 1999. Estensore: Byron
“Come spesso ricordato, uno dei deterrenti all’uso terapeutico della clonazione è sempre stata l’impossibilità di ottenere organi e parti “adulte”. La clonazione, come dimostrato più volte, è ormai un processo ripetibile. L’attuale grado di conoscenza è tale da permetterci di effettuarla senza rischi e in condizioni assai meno perfette di quelle che sperimentiamo in questa base.
Da ieri anche questo muro è stato abbattuto. Il procedimento funziona. La clonazione accelerata è realtà. (Schemi e dettagli del procedimento, registrazione dell’esperimento e filmati registrati nel file CA.)”
Yin e Yang.
La sensazione, quasi annegare, inspiegabile, irrazionale, travolgeva i suoi sensi. Schiacciato dalla enorme quantità dei riflessi che continuamente rintracciava nello specchio (negli specchi?) davanti a lui, vacillò, generando nuove difformità nelle immagini che adesso, in apparente movimento, continuavano a fissarlo. Riprese una posizione salda sulle gambe, deterse un sudore freddo della fronte, respirò profondamente. Lo specchio rapì nuovamente il suo sguardo. Osservando il primo riflesso spostò la sua attenzione verso sinistra. Altri riflessi, stavolta di spalle, si allontanavano da lui alla stessa velocità dei precedenti. Ovviamente lo specchio dietro di lui generava le immagini che stava osservando adesso. Non era un fenomeno nuovo. Chiaramente anche questi riflessi avevano iniziato a fluire da lui insieme ai precedenti. Nondimeno soltanto adesso li notava. Non una, dunque, ma due linee creative stavano (contemporaneamente, su questo non nutriva alcun dubbio) originandosi. Una, la rappresentazione frontale, che aveva notato per prima. Mentre la seconda, pur essendo ancora un suo riflesso, ne rappresentava l’opposto. Riflettevano parti diverse di lui. Due lati di ogni riflesso che, per ragioni che non riusciva a comprendere, erano sempre più lontani fra loro tanto più si allontanavano da lui (immagini generate nello stesso microsecondo viaggiavano ormai lontanissime, correndo una verso il bordo visibile a destra, l’altra verso quello opposto). Si chiese se sarebbe mai stato possibile ricomporle, ricostruendo quindi qualcosa di più simile all’originale. Simile, non uguale. Aveva già determinato che l’originale, lui, era ormai diverso dalle immagini che correvano. Una differenza temporale. Ma anche una differenza di esperienza, di conoscenza, di bagaglio. E anche ogni singola immagine differiva da quelle che la precedevano o seguivano. E maggiormente differiva da quelle effettivamente diverse da sé, riflesse di fronte o di spalle. Cercò altri tipi di riflesso persi nel gioco degli specchi ma, contrariamente a quello che si aspettava, non trovò nessuna figura di tre quarti, o di profilo. Improvvisamente sentì la voglia, meglio, la necessità di rompere lo specchio. Seppe, senza ombra di dubbio che soltanto l’annientamento di quell’oggetto gli avrebbe permesso di liberarsi del suo stato, di eliminare tutti quei riflessi così distorti, così sbagliati, eccessivi. Tutto quel riprodursi insensato, inutile. Quello sdoppiarsi blasfemo. Quella dicotomia innaturale e perversa. Ogni istante generava mostri. Una scatola di pandora era stata inconsapevolmente aperta e solo lui, responsabile di tutto questo poteva, anzi doveva, richiuderla Lo specchio doveva essere rotto. Immediatamente. 
Mnemonica.
Contemporaneamente ai nomi si trova in mente tutti i particolari relativi ai suoi compagni.
John William Polidori, il direttore del progetto. Mani lunghe e curate, gentili, femminee. Soggetto a frequentissimi incubi notturni, dorme pochissimo. Il viso porta i segni del suo difficile rapporto con il sonno: occhiaie profonde e scure macchiano un incarnato diafano. Per questo motivo passa lunghi minuti a studiarsi davanti allo specchio grande della sala riunioni. Un vezzo antico, dice. Maniacale nella cura del corpo, è solito radersi tre volte al giorno e lavarsi le mani in continuazione. Odia letteralmente i germi, secondo lui presenti ovunque. Per questo motivo compie abluzioni frequenti. Uno stato nervoso che Byron, anglosassone fino al midollo, definisce “poor”, incide pesantemente sull’indole di Polidori che, infatti, alterna momenti di ilarità sfrenata ad altri di depressione. Ciononostante è geniale. Le sue ricerche sulla clonazione, che lo hanno reso famoso, sono ancora il riferimento per i nuovi ricercatori. E negli ultimi anni ha compiuto passi da gigante. Quando pubblicherà le sue conclusioni, al termine del lavoro che devono svolgere qui, rivoluzionerà il modo stesso di intendere la clonazione terapeutica. Figlio di un italiano e di una inglese non ha mantenuto niente di latino.
Si sorprende della nettezza delle informazioni che sta riportando alla mente. Curiosamente si rende conto di non rammentare l’età del direttore. Ricorda chiaramente il volto e la figura. Conclude che debba essere suo coetaneo. Superati ampiamente i cinquanta. Non è importante, in fondo.
George Byron, alto e magro. Capelli corvini inquinati appena sulle tempie da fili di argento lucido. Vestito sempre in modo elegante, quasi eccessivo.
Fumatore accanito. Dato che all’interno del complesso i posti per fumatori sono rari non è inusuale trovarlo all’esterno, nel gelo artico, infagottato nel giaccone verde con le cifre del progetto. Riesce a indossare anche quello come fosse un capo su misura. A causa delle frequenti uscite sfoggia sempre un color porpora sulle guance che, col tempo, pare divenuto permanente. Appare in ottima forma. Anche lui si interessa di clonazione. Suo fu il primo tentativo di clonazione umana. Per questo rischiò la radiazione e, in ogni caso, sopporta la deplorazione della comunità scientifica che lo considera senza scrupoli. Citato spesso negli articoli come il novello dottor Frankenstein, sembra provare per questa sinistra fama una crudele e cinica approvazione.
Percy Shelley è il suo assistente. Anche lui genetista, anche lui coinvolto nello scandalo che aveva quasi travolto il suo mentore, si trova a vivere un’esistenza nell’ombra del suo controverso ma geniale compagno. Di una decina di anni più giovane, non dimostra una personalità particolarmente brillante. Buon conversatore e piacevole giocatore di carte si è comunque rivelato il compagno ideale di Walton. Capace di motti di spirito riesce spesso ad allentare la tensione che l’isolamento e la fatica che il lavoro che stanno svolgendo comporta.
L’ultimo componente della strana congrega di cui fa parte è Luigi Caputo. Piccolo e scuro, affabile e intelligentissimo. In un gruppo di genetisti si trova un po’ a disagio. Così è più facile rintracciarlo fra le sue macchine. Il programma di lavoro cui scrupolosamente si attiene è stato stravolto dalle condizioni di Walton. Quando ci si è resi conto che il suo stato non concedeva più di un anno, Caputo ha dovuto accantonare i dubbi e iniziare il paziente lavoro che li ha visti affiancati. Purtroppo nessuno dei due era esperto in materia. Avevano dovuto procedere inventandosi metodo e programma di lavoro. Li aveva aiutati la gran massa di materiale fotografico e video che erano riusciti a rintracciare. Ma ancora non bastava. Adesso era un problema di memoria. E pazienza.
Adesso erano giunti al termine. Tutto il materiale era stato trasferito nei computer di Caputo. In pochi giorni sarebbe stato disponibile per l’uso.
Infine lui. Walton. Trentadue anni passati alla ricerca di una cura per le malattie genetiche. Non un genio. Un buon ricercatore. Aveva avuto i suoi riconoscimenti dalla comunità scientifica. Ma il suo lavoro non era certo paragonabile a quello dei suoi più noti e illustri colleghi. Era stato scelto a causa della malattia. Lo sapeva. Era un ricercatore. Ma, contemporaneamente, era il campo di studi. E, infine, la cavia.
Lo aveva scelto lui. Ma aveva la certezza che quello fosse il disegno primigenio della Cxxxx. In principio questa sensazione di essere manipolato lo aveva infastidito. Poi, fatti i dovuti patti con la propria coscienza, aveva concluso che era un male necessario.
Il pannello murale è ovviamente andato in tilt. Segna le 13.45 del 6 febbraio 2109. Oggi è il 25 dicembre 1999. Ne è certo. Non è data che si possa confondere.
Strano. Non era mai successo. La base è completamente automatizzata e tutti i sistemi hanno la propria auto-diagnostica.
In principio si era sentito a disagio in quel posto. Virtualmente perfetto. Alimentato da un reattore nucleare che, con le dovute attenzioni, avrebbe potuto fornire energia per i prossimi mille anni. Autosufficiente persino per il sostentamento dei suoi occupanti. Un sintetizzatore simile a quello in uso per i viaggi nello spazio era in grado di fornire una pappina contenente tutto quello di cui avevano bisogno. Teoricamente era in grado di fornire nutrimento per un periodo ancora più lungo di quello previsto per la vita del reattore. Fortunatamente c’era anche una dispensa fornita. Avevano dovuto imparare a cucinare. Ma Caputo era già versato in quella occupazione. E gli altri si erano adeguati. Non c’era la possibilità di includere altri nel progetto. La particolare natura del lavoro non lo permetteva. Così avevano dovuto fare da soli.
Non avevano alcun contatto con l’esterno tranne i frequenti messaggi via e-mail da e con la casa madre. Nessuno di loro aveva parenti in vita. Probabilmente questo era un altro dei motivi per cui erano stati scelti.
Il progetto prevedeva cinque anni di lavoro in totale isolamento. Ne avevano tre alle spalle. Ancora due e sarebbero tornati al mondo. Tutti tranne Walton. .”
Dal “diario”. Annotazione del 13 novembre 1999. Estensore: Polidori
 “Il mio contributo al progetto è terminato da tempo. La catena del DNA di Walton è ripulita dall’ALD e tutto il materiale che sarà necessario a clonarlo è già nelle vasche di Byron da tempo, crionogenicamente preservato. La mia parte era quella che prevedeva minori difficoltà. Ho utilizzato conoscenze note e di pubblico dominio. Solo un rompicapo, un gioco paziente. Gli altri hanno dovuto creare. Ma adesso tutto il nostro lavoro procede verso la conclusione. Nelle nostre tabelle questo traguardo avrebbe dovuto essere raggiunto fra undici mesi. Ma le condizioni di Walton sono tali da non permetterci deroghe.
Caputo afferma che entro una settimana anche il suo lavoro sarà terminato. A quel punto tutto sarà pronto.
Il momento è arrivato.
Questo mi spaventa. Il passaggio dalla teoria alla pratica è un momento cruciale. Stiamo per sostituirci a Dio.
Dormo pochissimo e male.”
Storie.
Alcuni anni dopo, preso possesso della casa che era stata dei suoi genitori per abitarci, pur essendo lontano dagli sguardi della zia, aveva continuato a ripetere la stessa scena: Si spogliava, metteva pigiama e veste, leggeva nello studio e andava a letto. Ad un orario consono. Sorrideva alla sua immagine nello specchio davanti al letto, approvando mentalmente la perfezione dei dettagli, la piega perfetta del pantalone del pigiama, il suo aspetto, gradevole nell’insieme e superava la notte nel modo che gli era ormai congeniale.
Scriveva durante i lunghi pomeriggi vuoti, adesso.
La rendita che i suoi gli avevano lasciato consentiva, se non l’agiatezza, almeno la possibilità di vivere senza lavorare. E di questo lui era ben conscio. E felice. Anche se le ore di inattività e l’ozio iniziavano a tediarlo.
Le sue storie erano sempre più fantastiche. Inoltre il suo stile era andato migliorando con il tempo. Riusciva a perdersi dentro quelle vite esotiche e frenetiche che creava. E, per questo motivo, il ritorno, quando riponeva in buon ordine il calamaio e l’elegante penna d’oca che la zia gli aveva regalato anni addietro, i fogli ancora intonsi e quelli vergati dalla sua rotonda e bella calligrafia, era sempre più doloroso.
E’ di quegli anni la sua prima pubblicazione: un editore di Berlino, antico amico di suo padre, lo contattò dopo aver letto un brano tratto dal suo secondo romanzo: le lunghe chele della zia si muovevano secondo direttrici e con modalità proprie. Un breve incontro e due giri di bozze furono sufficienti e, nel breve volgere di una stagione, la sua opera venne alla luce. Non incontrò un grande favore di pubblico e la critica fu quantomeno tiepida. Ma di questo lui si curò poco. Aveva notato sin dal principio un totale disinteresse per la cosa. Ma, come d’abitudine, si era comportato come sapeva che ci si sarebbe aspettati da lui. Aveva seguito con attenzione le note che l’editore aveva voluto fornirgli, aveva controllato minuziosamente che l’edizione risultasse soddisfacente e aveva presenziato alle rare occasioni pubbliche in cui il libro era stato presentato al pubblico. Aveva preso sempre la parola su sollecitazione degli interlocutori curando di essere brillante. Proiettando un’immagine conforme a quella dello scrittore tipo. La zia era molto orgogliosa.
Dal “diario”. Annotazione del 19 novembre 1999. Estensore: Walton
 “Anche il mio lavoro è terminato. Adesso Caputo deve inserire tutto il materiale nelle sue macchine.
Polidori è particolarmente nervoso in questi giorni. Ha frequenti scatti e passa ore in comunicazione con il suo referente alla Cxxxx. Le sue condizioni mi preoccupano.
Differenziazione.
Una pioggia di schegge e pezzi che si staccano e cadono a terra originando fontane di frammenti che rimbalzano. Riflessi feriti, spezzati, che si perdono in frammenti di immagine. Immagine sempre meno significativa perché ridotta ai minimi termini, così infinitesimale da non essere più comprensibile, visibile. Probabilmente alcuni dei frammenti lo avrebbero potuto ferire se non fosse stato abbastanza veloce nel ritrarsi. La cosa lo preoccupava leggermente perché era spossato da quell’inusuale esperienza. Sentiva le gambe molli, le membra come immerse in un fluido appena più viscoso dell’acqua. Avvertiva una resistenza, se interna o effettivamente esterna non avrebbe saputo dire, un impedimento ad agire, a muoversi semplicemente.
Possedeva però ancora la sua determinazione, la sua capacità di essere padrone dei suoi atti. Anche se sentiva che ogni attimo lo avvicinava sempre più a una condizione imbelle. Pochi secondi ancora e non sarebbe stato più capace di reagire, anche la sua stessa mente lo stava iniziando a tradire. Sapeva (non sarebbe stato in grado di dire in che modo) che a breve sarebbe stato colto dall’atarassia e, finalmente libero dalla pressione, sarebbe rimasto fermo davanti a quello specchio per sempre, fermo, immobile. Finché un alito di forza avesse abitato le sue membra. Gli sarebbero cresciute addosso piante, alcuni piccoli animali avrebbero fatto il nido su di lui e roditori avrebbero passeggiato fra i suoi piedi. Fili di ragnatela e polvere lo avrebbero lentamente ricoperto mentre lui, immemore, avrebbe continuato a generare riflessi e storie, inconsapevole e, nonostante questo, motivo, motore (anima?). Non poteva attendere.
La gamba, ricacciata indietro con violenza, comunicò al suo cervello un dolore, una fitta possente, quasi l’arto fosse rimasto inattivo per settimane, mesi, anni. Il percorso inverso fu coperto in modo velocissimo. La superficie ebbe un moto lento, come di mercurio. Sotto la violenza del colpo si distorse. Fu per un istante convessa e, con eleganza, si preparò a divenire concava. Lui sentì che in quel momento lo specchio si sarebbe rotto. Ebbe di nuovo la visione della pioggia di schegge e pezzi che si staccano e cadono a terra originando fontane di frammenti che rimbalzano. Poi lo specchio si ruppe.
Doveva avere una sorta di armatura interna. Si sentì derubato della cacofonia che si era tanto accuratamente immaginato. Il rumore si limitò a uno “stack” freddo.
Due profonde ferite segnavano la superficie poco prima intatta, dividendolo in tre parti. Il segno della rottura era netto, un taglio quasi. Le tre parti avevano assunto orientamenti diversi. I riflessi si moltiplicavano, generando immagini ancora più differenziate, ritraendolo di fianco, di tre quarti, dall’alto e dal basso contemporaneamente. Le diverse immagini si incrociavano continuamente. La parte più grande, il terzo di specchio in basso, aveva assunto una tonalità di colore diversa, più scura. A cosa fosse dovuto non riusciva a immaginarlo.
Dal “diario”. Annotazione del 30 novembre 1999. Estensore: Byron
 “Polidori è impazzito. Non ho nessuna intenzione di rinunciare al progetto. Non so cosa abbia concordato con la direzione della Cxxxx ma non permetterò che tutto questo lavoro vada in fumo. Ci hanno concesso un mese per smantellare i laboratori. Vedremo di farli essere sufficienti. Caputo è pronto. Domani l’esperimento avrà inizio.”
Dal “diario”. Annotazione del 30 novembre 1999. Estensore: Caputo
“Ho rimosso il collegamento di Polidori all’Aleph. Le sue condizioni mi portano a credere che potrebbe tentare di sabotare il progetto. Come Byron e Shelley, sono convinto che non possiamo permettere a nessuno di ostacolarci. Non quando siamo così vicini al successo della nostra impresa. Walton sta sempre peggio e francamente dubito che possa vivere ancora a lungo. Dobbiamo agire adesso. Domani Byron mi fornirà il contenitore adeguato, così afferma. Poi toccherà a me. All’Aleph, per essere precisi. Spero di aver programmato il tutto alla perfezione.”
L’aleph.
Improvvisamente memore della disposizione dei locali Walton si dirige verso la sala controllo. Ha bisogno di spiegazioni. E in sala controllo le troverà. Troverà i suoi colleghi, per un misterioso motivo è convinto di non riuscire a trovarli affatto, oppure consulterà l’aleph, il computer centrale. Contiene tutte le informazioni concernenti il progetto. Hanno avuto cura di aggiornarlo quotidianamente, tenendo un diario informatico. Anche i piccoli avvenimenti sono stati inseriti nel diario. In uno dei files sul desktop c’è anche la sua memoria, quella che lui e Caputo hanno faticosamente, lentamente trascritto.
Come si trascrive una vita?.
Non so come sia andata per voi. Per me è stata una fotografia.
Il primo ricordo che riesco a richiamare alla mente risale a quando avevo quattro, cinque anni. Mio padre aveva portato me e Lara, mia sorella, al circo. Dopo lo spettacolo, probabilmente, ci portò nel tendone degli animali. Suppongo ci fosse quell’odore pungente di terra e segatura, di bagnato, tipico di quei tendoni. Immagino che gli animali, chiusi in gabbie, si muovessero nervosamente. Qualcuno sicuramente vendeva dello zucchero filato e io e mia sorella ne avremo mangiato. Chissà che sapore aveva? Avremo passato del tempo a guardare le scimmie.
 Nella foto io e Lara siamo sulla groppa di un elefantino. Allora dovette sembrarci enorme. L'elefante ha la proboscide alzata e, forse, barrisce. Negli occhi di mia sorella si legge il terrore e il divertimento. Nei miei soprattutto terrore. Babbo è in piedi accanto all'elefantino. Con una mano tiene la mia gamba. Il contatto mi avrà sicuramente tranquillizzato, anche se, a vedere dalla mia faccia, proprio non si direbbe.
 Dopo le scimmie fu sicuramente il turno degli animali feroci. Tigri, leoni. E poi, forse, zebre, cavalli, cammelli. Babbo mi ha raccontato che era la prima volta che uscivamo dopo il morbillo. Quaranta giorni chiusi in casa. Io e Lara ci accapigliavamo spesso. E in quel periodo di forzata convivenza al chiuso, poi.
Infine dobbiamo essere arrivati all’elefante. Un lavorante del circo si sarà avvicinato offrendoci la possibilità di salire sull’animale per una foto. Lara, come sempre, avrà esultato. Io, molto meno entusiasta, avrò accettato per non dimostrarmi pauroso. Babbo mi avrà sollevato da terra con molta attenzione. Dopo le malattie aveva sempre paura che potessimo romperci. Mi avrà messo sulla groppa dell’elefante, assicurandosi che mi tenessi bene. Poi avrà preso Lara. E l’avrà messa dietro di me. L’elefante, certamente addestrato, dopo pochi secondi deve aver alzato la proboscide. E qui scattarono la fotografia.
 E' come se una porta si spalancasse nella mia mente. Ricordo che l'uomo con la macchina fotografica aveva i baffi. L'occhio dell'elefante sembrava bagnato. Mi guardava senza vedermi. Babbo pagò e, dopo averci riportato coi piedi per terra, annunciò che era l'ora di tornare a casa. Fuori pioveva. Salimmo sulla macchina. Lara piagnucolò che non voleva andarsene.
 Quando, molti anni dopo, le ho chiesto cosa ricordasse di quel giorno, mi ha guardato come se fossi un marziano. Per convincerla ho dovuto mostrarle la foto. Era convinta di non essere mai stata su un elefante.
 Erano le sette del pomeriggio. Ricordo esattamente il quadrante dell'orologio sul cruscotto. Era uno di quei terrificanti orologi magnetici con l'immagine di qualche santo a lato. Quel santo era San Cristoforo.
 Mi ha sempre impressionato la mia memoria. Ricordo particolari, minuzie, sensazioni, gusti. In qualche modo cristallizzo i ricordi. Quando voglio li richiamo e li ritrovo intatti. Mi sono reso conto che, per gli altri, i ricordi, con il passare degli anni, sfumano, divengono meno definiti.
 E' curioso che il mio primo ricordo sia legato a un elefante. Si dice che la memoria di quegli animali sia portentosa.
 Mi è capitato spesso di chiedermi cosa sia successo prima di quel momento. E anche oggi, davanti al cassetto delle foto, mi trovo a guardare momenti che non sono veramente miei. Spiagge assolate, mare, boschi, persone. Guardo le facce di questi sconosciuti che siamo io e mia sorella, i miei nonni, i miei genitori, chiedendomi perché non posso, nonostante tutti i miei desideri, far correre ancora il rewind. Perché si fermi alla foto dell'elefante.
Una foto. Chissà perché.
Risveglio 7666.
Contrariamente a tutta la letteratura in merito non c’è nessun lento svelarsi. Nessun progressivo riappropriarsi dei sensi. Dall’assoluto buio il professor Walton si ritrova improvvisamente nel mondo. La prima sensazione che riceve dall’esterno è la ruvidità amidata del lenzuolo su cui è sdraiato. Ogni particolare della stanza gli appare nitido e definito. Probabilmente è la luce bianca, sicuramente neon, che rende tutti gli spigoli evidenti, tutte le ombre marcate.
Si volta verso destra e osserva un ambiente completamente vuoto. Le pareti sono bianche, lattate. Sembrano composte di un unico pezzo di ceramica. Ovviamente, conclude, è un’impressione. E’ convinto che, avvicinandosi, capirebbe esattamente la natura di quel rivestimento. Soltanto un grande specchio occupa una significativa porzione della parete alla sua sinistra.
Vestitosi con gli indumenti trovati sotto la lettiga si avvia alla porta che ha individuato.
Indugia prima di uscire. Aprendosi, la porta ha permesso all’aria esterna, più fredda, di insinuarsi nella stanza. Per qualche strano meccanismo ancestrale Walton associa più freddo a peggiore. Deve far ricorso alla sua razionalità per sconfiggere quella sensazione e forzarsi a uscire. Niente nella stanza lo aiuta a raccogliere le idee. Probabilmente l’ambiente esterno risulterà più familiare. Comunque non più alieno di questo.
Il pannello murale è ovviamente andato in tilt. Segna le 13.45 del 16 febbraio 2109. Oggi è il 25 dicembre 1999. Ne è certo. Non è data che si possa confondere.
Strano. Non era mai successo. La base è completamente automatizzata e tutti i sistemi hanno la propria auto-diagnostica.
L’aleph (II).
 Giunto nella sala controllo, esattamente come immaginava, Walton si trova nella stanza deserta. Una certa incuria, polvere sui tavoli e un senso come di abbandono, lo stupiscono. Quella sala è il cuore pulsante dell'intero complesso. Lui e i suoi colleghi passano la maggior parte del loro tempo di veglia proprio in questo posto. Comincia a chiedersi se per caso non sia rimasto solo nel complesso. Per quanto si sforzi non ricorda niente del genere. Scaccia questo molesto pensiero dalla mente e si dirige verso l'Aleph.
Sul desktop ci sono tutti i documenti che ricorda, tutti i suoi ricordi messi su files.
“Le tue conoscenze non sono un problema. – aveva esordito Caputo – Le inserirò direttamente. Sono nozioni. Codificabili con facilità. Per i ricordi sarà più difficile. Anche ammettendo di riuscire a trovare della documentazione in merito, è improbabile che tu li ricordi in quel modo. No, non c’è soluzione. Dovrai ricordarli e trascriverli. Esattamente con le parole che ti vengono alla mente. Non pretendo che tu ti trasformi in uno scrittore. Né lo voglio. Non cercare di rendere questi resoconti belli o ben scritti. Trascrivi semplicemente quello che ricordi.”
“Ma non sono in grado di farlo.” proruppi io.
“Dovrai esserlo, amico mio. Dovrai esserlo.”
“Ma non ho idea di come si possa trascrivere una vita.”
“Neanch’io. Immagino che dovremo inventarcelo.”
  
Otto quaderni a quadretti.
La scrittura era fitta. Pagine e pagine piene di parole, correzioni, note a margine. Una calligrafia piccola, difficile. Poche rotondità e una tendenza verso destra.
Possiedo ancora il ricordo, nitido: la testa leggermente inclinata, riempiva quelle pagine che, per pudore, restavano gelosamente sue. Sogni riportati su carta. Pensieri ridotti in parola. E fantasia.
Sapevo, sapevo perfettamente, ogni volta, che cosa scriveva. Ne parlava, non spesso, con me. Ma non avevo mai letto niente. Non voleva. Si limitava a riempire le pagine.
E adesso sono qui, davanti a me. Otto quaderni. A quadretti, credo. Mi pare di ricordare di averlo notato una volta.
Scriveva dovunque. Ma preferiva la terrazza grande. La poltrona bianca di resina. Allungava le gambe, ci appoggiava il quaderno sopra e cominciava a scrivere. Senza fermarsi. Avevo l’impressione che procedesse sotto dettatura. Anche le correzioni e le note sembravano già presenti nella stesura, tanto erano integrate nella pagina. Non ho mai capito come facesse.
Una volta provai a scrivere anch’io su quella poltrona. Era tanto scomodo che dovetti smettere.
La cosa più sorprendente era l’effetto grafico della pagina. C’era un che di artistico nella forma che la pagina assumeva dopo che l’aveva riempita. Era dotata di movimento. Riuscivi a seguire l’esatto ordine in cui era stata compilata. E l’effetto finale era armonico. O forse lo ricordo così solo perché l’immagine di quelle pagine, non il contenuto, è quello che mi resta nella memoria. Forma privata della sostanza.
Otto quaderni, davanti a me, tutti colorati. Immagini di commerciale felicità sulle copertine. E nessuna allegria di ritorno.
Capitavano giorni in cui quella attività era l’unica. Da mattina a sera. Venti, trenta pagine. E mesi in cui i quaderni restavano abbandonati nel primo cassetto del comò. Normali quaderni da scuola, con copertine variopinte, chiusi in un cassetto. Quando non scriveva era assente. L’esaurimento nervoso e gli psicofarmaci usati per combatterlo ne deprimevano lo spirito. Ne limitavano l’energia. C’erano giorni in cui pareva incapace di parlare. Rimandava un effetto di spossatezza che si impadroniva anche di chi stava là intorno. Pigrizia, talvolta. E un profondo senso di infelicità.
Uno degli angoli del primo quaderno è bruciacchiato. E credo anche alcune pagine all’interno. Fu il suo primo tentativo di liberarsene, mi pare.
Il suo mondo privato era, in qualche modo, prigioniero di quei quaderni. Divennero l’unico modo di comunicare quello che aveva dentro. Le emozioni, che affollavano il suo animo, trovavano soltanto quello sfogo. E nessuno poteva conoscerli. Gli psicofarmaci e una sorta di disciplina, adottata dopo l’esaurimento, impedivano altre forme di espressione. Sembrava che tutti gli avvenimenti dell’ultimo anno avessero cauterizzato, con le sue ferite, anche la sua anima. Vagava talvolta per la casa con lo sguardo vuoto. Gli altri potevano credere che pensasse. Ma non era così. La sua mente era vuota, completamente vuota.
Credemmo che fosse finita molte volte. Ogni tanto, ciclicamente, pareva risvegliarsi. Per alcuni giorni la vita tornava alla normalità. Le energie, a lungo tenute a freno, si riversavano all’esterno, verso tutti noi. Ma, poco dopo, tornava ai suoi quaderni. E di nuovo sprofondava.
Aveva trentasette anni. Io quattordici. Ma si cresce in fretta quando si convive con qualcuno che sta così. Due tentativi di farla finita ci avevano costretto a sorveglianze continue. Durante i miei turni passavo il tempo a seguire furtivamente i suoi rari movimenti. Salvo quando scriveva, non si muoveva quasi. Ogni minimo cenno sembrava precedere una parola. Che però, immancabilmente, moriva sulle sue labbra. Fu allora che imparai a osservare. Fino ad allora avevo visto, guardato. Mai osservato veramente.
La situazione precipitò il giorno del mio quindicesimo compleanno: il giorno dell’ultimo tentativo di farla finita. Riuscimmo ad afferrare le caviglie per un soffio. Tutti gli invitati, scossi e turbati, sparirono delicatamente. I figli trascinati via. E noi, paria, sfiniti e distrutti. Avevamo perso la speranza.
Otto quaderni, che adesso sono miei. E che non ho mai aperto. Mi accontento di guardarli ogni tanto. Sfogliarli anche. Osservare la calligrafia. Toccarne le pagine. Tre anni di angoscia, dolore, paura, lacrime. E parole, parole fitte, organizzate, nervose.
Li osservo.
Poi alzo gli occhi e vedo quella stupenda donna di sessanta anni che è mia madre. Felice, libera, appassionata e viva. E’ seduta sulla poltrona bianca di resina, sulla terrazza grande. E parla con due amiche. Dalla cucina arriva un meraviglioso profumo di arrosto.
E’ il mio trentasettesimo compleanno. E ho appena deciso che mi regalerò ancora un anno senza leggerli.
Li rimetto in pila e li lego con l’elastico con cui li riposi ventidue anni fa. E li rimetto al loro posto, nel primo cassetto del comò.
  
Vivere?.
Quindici anni dopo, Marcus Von Hommenstal venne sfiorato da un pensiero: perché non smettere di scrivere tutte quelle storie? Perché non riporre penna e inchiostro, allontanarsi da loro per vivere alcune di quelle avventure. O infinite altre. Viaggiando avrebbe potuto sicuramente incontrare alcune di quelle interessanti figure che aveva spesso immaginato.
La sera, incredibilmente, dormì. Un lungo sonno ristoratore.
Al mattino le sue energie sembravano inesauribili. Si sentiva pronto per conquistare il mondo tanto a lungo vagheggiato.
Passò la mattinata a compilare la lista delle cose che avrebbe dovuto portare con sé. Quindi salì in soffitta a recuperare i due grandi bauli lasciati da suo padre.
Si fermò soltanto a pomeriggio inoltrato. Non si era ancora deciso a comprare un biglietto del treno. Non sapeva scegliere quale dovesse essere la sua destinazione. Era tentato dall’Asia. Ne aveva scritto spesso. E per farlo si era documentato a dovere. Conosceva alla perfezione i panorami e i luoghi da visitare. Ma anche il nord dell’europa sembrava un luogo interessante. E la Spagna. E l’Italia.
Prese carta e penna e scrisse uno splendido racconto su un uomo che viaggiava, percorrendo l’intero pianeta. Uno dei suoi più eleganti. Uno dei più riusciti.
La sera lo sorprese mentre scriveva ancora, come posseduto. Ripose i fogli e, come aveva sempre fatto, salì in camera, si spogliò, mise pigiama e veste. Scese nello studio, lesse per un’ora. Poi tornò in camera, si stese sul letto. E riprese a fingere di dormire.
Resta ben poco da dire della sua vita. Dieci anni più tardi la zia morì. Un fulmine a ciel sereno per le amiche invecchiate che frequentavano ancora assiduamente la casa grande. Molto meno per lui che aveva visto chiaramente i segni del decadimento, le chiazze nuove sulle mani, sempre più fitte. E quell’odore, come di carne neanche morta ma già sottile, un velo proprio. Certe rigidità degli arti dopo il sonno, le rare volte che passava a trovarlo.
La cerimonia funebre fu sorprendentemente simile a quella di suo marito. In effetti per lui era il secondo funerale. Non aveva mai avuto occasione di assistere a cerimonie simili a parte quella ormai antica del duca. Anche questa cosa lo infastidì e decise di narrare una storia il cui momento centrale fosse un funerale. Ma non lo fece mai.
Come era avvenuto per il primo, anche il secondo funerale e i giorni a seguire passarono con le visite e le parole inutili. E la forma dignitosa, la fiera sopportazione della perdita, il conforto offerto e dato. Gli abiti neri e le fascette al bicipite all’altezza del cuore. Le parole davanti alla pietra e le lunghe serate da solo, con l’inspiegabile voglia di rose da sistemare in un vaso grande. Decise in quel momento di piantare un roseto nel piccolo giardino dei mandorli, davanti alla casa e di prendersene personalmente cura. Ma non lo fece mai.
Sul comò le fotografie diventarono quattro. Da tempo aveva smesso di tentare.
Se un giorno di questi vi capitasse di passare davanti al giardino dei mandorli, in uno di questi bei pomeriggi di primavera, guardate dentro: oltre la vetrata, dentro lo studio vedrete un uomo ormai anziano che riempie fogli con una bella calligrafia rotonda. Elegante.
Se deciderete di restare da quelle parti lo vedrete indossare pigiama e veste da camera. Lo vedrete leggere per un’oretta. Se avete vista abbastanza buona riuscirete a sbirciare sul comò: il piano è sgombro, completamente. In un angolo ci sono cinque cornici d’argento che contengono cinque foto. La quinta, quella più nascosta, è più recente rispetto alle altre. Ritrae Marcus Von Hommenstal vestito di un elegante abito da campagna, sullo sfondo della casa grande, alcuni giorni prima che venisse acquistata da una famiglia agiata di Berlino.
E, se deciderete di restare ancora un poco, lo vedrete mentre finge di dormire.
Se sarete fortunati, in uno di questi pomeriggi, Marcus Von Hommenstal vi inviterà ad entrare. E forse, ma accade di rado, vi permetterà di leggere alcune delle sue opere.
Resterete affascinati dal suo scrivere. E’ elegante. E le storie sono fantastiche.
Probabilmente vi capiterà di notare che sono opere di fantasia. Che non sono pervase di vissuto. Ma è soltanto perché Marcus Von Hommenstal non ha mai vissuto.
Come ha imparato a fare da piccolo, ha sempre simulato.
  
Nichilismo.
La mente di JVH creava le storie delle creature che superavano il confine degli specchi senza soluzione di continuità. Non c’era più niente di consapevole in questo. Una specie di pilota automatico che non sapeva come disinserire. Aveva provato più volte la tentazione di spostarsi, di abbandonare quel luogo. Avvertiva la perniciosità di quello che stava facendo. Avvertiva che il passare del tempo (quanto ne era passato? Nel vecchio tempo, nello scorrere quotidiano, non potevano essere trascorsi più di cinque minuti.) sbiadiva in qualcosa di sempre più indistinto. La sua mente continuava a vivere su due livelli paralleli: quello originario, quello organico, in cui esisteva fisicamente e quello creato dai suoi riflessi. E quei cinque minuti erano già generazioni e generazioni, interi popoli nati ed estinti. Spostarsi, anche solo di un metro, avrebbe interrotto quel fluire. Ma, si chiedeva, quell’interruzione avrebbe veramente posto la parola fine al suo stato? O non avrebbe invece generato una nuova fila di riflessi viventi, esistenti? Un nuovo universo? E in questo caso che fine avrebbe fatto quello creato in precedenza?
Risveglio 7667.
Contrariamente a tutta la letteratura in merito non c’è nessun lento svelarsi. Nessun progressivo riappropriarsi dei sensi. Dall’assoluto buio il professor Walton si ritrova improvvisamente nel mondo. La prima sensazione che riceve dall’esterno è la ruvidità amidata del lenzuolo su cui è sdraiato. Ogni particolare della stanza gli appare nitido e definito. Probabilmente è la luce bianca, sicuramente neon, che rende tutti gli spigoli evidenti, tutte le ombre marcate.
Si volta verso destra e osserva un ambiente completamente vuoto. Le pareti sono bianche, lattate. Sembrano composte di un unico pezzo di ceramica. Ovviamente, conclude, è un’impressione. E’ convinto che, avvicinandosi, capirebbe esattamente la natura di quel rivestimento. Soltanto un grande specchio occupa una significativa porzione della parete alla sua sinistra.
Vestitosi con gli indumenti trovati sotto la lettiga si avvia alla porta che ha individuato.
Indugia prima di uscire. Aprendosi, la porta ha permesso all’aria esterna, più fredda, di insinuarsi nella stanza. Per qualche strano meccanismo ancestrale Walton associa più freddo a peggiore. Deve far ricorso alla sua razionalità per sconfiggere quella sensazione e forzarsi a uscire. Niente nella stanza lo aiuta a raccogliere le idee. Probabilmente l’ambiente esterno risulterà più familiare. Comunque non più alieno di questo.
Il pannello murale è ovviamente andato in tilt. Segna le 13.45 del 26 febbraio 2109. Oggi è il 25 dicembre 1999. Ne è certo. Non è data che si possa confondere.
Strano. Non era mai successo. La base è completamente automatizzata e tutti i sistemi hanno la propria auto-diagnostica.
  
Un Prometeo rinnovato.
Walton chiude il file con la spiacevole sensazione di aver letto la profanazione del proprio pensiero: ogni parola collocata esattamente dove si aspettava di trovarla. Il ricordo, nitido, gli sembra adesso costruito, falso.
Improvvisamente una serie di fitte squassano il suo corpo: la malattia è al termine. Questo lo sa. Dove sono gli altri? Perché non vengono ad aiutarlo?
Il dolore sembra non dover finire e lui sta iniziando ad accettarlo come sua ultima emozione. Poi, invece, come è arrivato, il dolore scompare. Ha difficoltà a riprendersi, luci, come piccole stelle, danzano davanti ai suoi occhi. E un senso di pesantezza nei muscoli del collo lo costringe a stare a capo chino. Cerca di rilassarsi e, in pochi secondi, sorprendentemente pochi rispetto a quello che si sarebbe aspettato, è nuovamente lucido. Osserva l’Aleph cercando di ricordare dove sia il file del diario. Non riesce a ricordarlo. Eppure sa che esiste. Sa di averlo aggiornato personalmente numerose volte. Ricorda il testo che ha inserito l’ultima volta. Poi, con uno scatto, corruga la fronte e si mette a osservare un punto alla sua destra, un punto oltre la parete, oltre il complesso, oltre il mondo stesso. Si rende conto di ricordare tutti i testi che ha inserito. Non di ricordarne il senso, di ricordare l’esatto testo, le parole, la sequenza. Strizza gli occhi mentre il ricordo dei files dei suoi colleghi affiora alla sua coscienza. Ricorda tutte le annotazioni, quelle eleganti di Byron, con quel lessico aulico. E quelle stringate, ermetiche quasi, di Polidori. Le annotazioni di Shelley.
Anche le formule di Caputo. Ricorda quel linguaggio assurdo. Ricorda una lunghissima striscia di zeri e uno che, ne è convinto, potrebbe riscrivere senza difficoltà. Sa che è una trascrizione di Caputo, non potrebbe essere altrimenti.
Comincia ad avere paura. Finora si è sentito a disagio, abbandonato. Adesso è spaventato.
Recupera il sangue freddo e accede alla funzione “trova” del computer. Digita “Diario” nella casella di ricerca e preme invio. Il file appare immediatamente. Sposta il puntatore del mouse e, con un filo di angoscia, clicca.
  
Risveglio 1.
Annotazione del 25 dicembre 1999. Estensore Byron.
Ore 12.00. Inizia il processo di mnemonizzazione. Il clone è nella stanza di Caputo. La parete divisoria fra la stanza delle camere di stasi e quella in cui il clone si trova adesso si è chiusa da pochi momenti. Adesso le informazioni raggiungeranno il suo cervello tramite collegamenti bluetooth. Per cui al risveglio non si troverà collegato fisicamente a una macchina. Questo dovrebbe evitargli il trauma. Questa è l’opinione di Caputo almeno. Io credo che scoprire gli impianti, dopo, sarà un trauma sufficiente. Ma non è il mio campo di interesse.
Il processo è comunque geniale. Riscrivere il software cerebrale della creatura con il materiale raccolto. Un procedimento che non riesco ancora a concettualizzare correttamente.
Il clone è perfetto. Il lavoro di Polidori è stato prezioso: un corpo libero dalla malattia genetica. Avrei preferito che lui fosse qui con noi a verificare il successo dell’operazione. Abbiamo dovuto chiuderlo nei suoi alloggi per evitare che ci intralciasse. Lo libereremo a risveglio avvenuto.
L’intero procedimento non dovrebbe durare più di novanta minuti.
Walton è in infermeria. La malattia sta degenerando. Sono convinto che non supererà la prossima ora. Mi domando se questo non sia in qualche modo collegato con il risveglio. Se non sia impossibile per due Walton, o per qualsivoglia altro essere, occupare contemporaneamente lo stesso tempo. Lascerò volentieri questo dilemma ai filosofi.
Io devo occuparmi dei cloni e del funzionamento delle camere di stasi. Quegli inetti della Cxxxx vorrebbero chiudere tutto come si trattasse di un semplice laboratorio. La clonazione accelerata. Abbiamo creato qualcosa di incredibile. In dieci giorni esatti, partendo dal materiale originale, un corpo nuovo, sano, della stessa età biologica del donatore, è pronto. Se anche questo risveglio fallisse avremo la possibilità di riprovare più volte. Siamo vicini al raggiungimento dello scopo. 
Annotazione del 25 dicembre 1999. Estensore Caputo.
Ore 13.00. Il processo mnemonico si sta completando. Fra poco la temperatura nella sala inizierà ad aumentare. Fra quarantacinque minuti le condizioni saranno perfette per il risveglio. Da ora in poi è tutto da scoprire: non sappiamo quali reazioni attenderci. Comunque il computer ha iniziato la routine. Fino a un nuovo intervento tutta l’operazione è in automatico. Le camere di clonazione, quelle di stasi, la sala di mnemonizzazione sono perfettamente autosufficienti. Continueranno l’esperimento finché io, Byron, Shelley o lo stesso Walton non lo interromperemo. Tutta la procedura è nelle mani dell’Aleph adesso.
Se tutte le nostre teorie sono corrette fra poche ore mi troverò a parlare con il mio vecchio amico Walton come se nulla fosse accaduto.
In infermeria le sue condizioni peggiorano di momento in momento. Credo che l’osservazione di Byron sull’impossibilità dell’esistenza di due Walton non sia da scartare.
Forse è questo che ha fatto vacillare Polidori. Dalla sua stanza arrivano delle grida di rabbia. Ha avuto molto tempo libero negli ultimi mesi. Il suo lavoro è stato il primo a essere concluso. Ha avuto mesi di inattività. Noi invece, presi dalla frenesia del lavoro, non abbiamo avuto molte occasioni per riflettere sul lato etico della faccenda.
Che abbia ragione lui?
Annotazione del 25 dicembre 1999. Estensore Byron.
Ore 13.44. Il clone si sta risvegliando. Il povero Walton si è spento pochi istanti prima che iniziassi a redigere questa annotazione. Il monitor non rileva più alcuna traccia di attività. Contemporaneamente il clone ha preso coscienza.
Questo rafforza la mia convinzione che creare un essere in tutto e per tutto identico a un altro già esistente non potrà essere effettuato con il soggetto in vita. Non ho dati a supporto di questa tesi. Nonostante questo percepisco chiaramente che essa è corretta.
Annotazione del 25 dicembre 1999. Estensore Shelley.
Ore 13.45. Walton sembra provare fastidio al contatto con il lenzuolo. Le terminazioni nervose funzionano. Sembra infastidito dalla luce bianca. Anche se non lo sa è la prima volta che apre gli occhi. Quindi è naturale. Si sta guardando intorno ma la stanza non gli fornisce alcun indizio. Sta riordinando le idee, se questa è la maniera giusta per definire il processo che il suo cervello tenta di compiere. Attraverso lo specchio magico possiamo sorvegliarne le mosse. Tutti i modelli comportamentali che abbiamo studiato suggerivano questo tipo di risposta. Adesso dobbiamo lasciarlo solo. Deve processare tutte le informazioni e abituarsi alla realtà lentamente. Nei prospetti abbiamo previsto un periodo di sei ore per completare il processo.
Walton ha deciso di alzarsi dalla lettiga su cui si trova. I movimenti sono lenti, circospetti. Si siede sulla lettiga con le gambe penzolanti.
Tre cauti passi. Poi torna a voltarsi verso la lettiga. Vuota e linda come il resto della stanza. Vede, nel ripiano portaoggetti, il pacco dei vestiti. Si veste lentamente osservandosi attorno. Si mette a ispezionare la stanza nella quale si trova. Osserva con particolare attenzione le feritoie circolari delle telecamere, in alto, al centro di ogni parete. Quindi il pavimento, il soffitto e le pareti.
Ha trovato la porta. Esce. Da adesso lo potremo seguire soltanto sui video.
Annotazione del 25 dicembre 1999. Estensore Byron.
Ore 16.00. Il clone ha raggiunto la sala controllo e sta per accedere ai file dell’Aleph. Come previsto dai modelli comportamentali di Caputo. Quell’uomo è geniale. Fra poco Walton prenderà piena coscienza del suo stato.
Annotazione del 25 dicembre 1999. Estensore Caputo.
Ore 16.30. Durante la lettura Walton sembra sofferente. Per un motivo che non riesco a spiegarmi sembra accusare gli stessi sintomi della malattia che lo ha portato, da poco, alla morte. Byron afferma che il lavoro di Polidori è stato perfetto. Che il corpo è sano. Nonostante questo il mio amico sembra soffrire come accadeva nei giorni passati all’originale. Possibile che Byron abbia commesso un errore tanto grave? O che l’intenzione di Polidori di sabotare il progetto fosse già in lui anche quando ci lavorava? Qualcosa non sta andando come previsto. Shelley è l’unico a non proferire parola. Credo abbia una sua teoria su questo ma che aspetti una conferma prima di parlarcene.
  
Atarassia.
“Dobbiamo proseguire. Individuare il problema e risolverlo in fretta. Alla Cxxxx aspettano che il progetto venga chiuso e, senza avere contatti con Polidori, entro breve si decideranno a intervenire direttamente.” La voce di George Byron contiene un’incrinatura insolita. Quella maschera di cinismo e sicurezza che lo contraddistingue è terribilmente crepata.
“Risolvere il problema non è cosa che si possa sbrigare in fretta. Soprattutto perché non sappiamo quale sia il problema. Sei sicuro che il corpo fosse sano?” Caputo, nervosamente, giocherella con la tastiera. Sta osservando il clone. Giace a terra, esanime. E’ innegabilmente morto. E i sintomi, le sue movenze prima di spirare, le contrazioni muscolari indicano che è morto per l’ALD. Di cui, in linea teorica, non era affetto.
Shelley rientra nella stanza trafelato: “Come pensavamo. La catena del DNA è pulita. Il clone non ha l’ALD. Non esiste alcuna possibilità.”
“Impossibile. Lo abbiamo visto tutti. Si comportava esattamente come il primo Walton. Aveva la malattia.”
“Ho una teoria. – inizia pacatamente Shelley - Credo che questo sia vero in parte.”
“Cosa dici? Hai verificato tu stesso.” Byron sta perdendo le staffe. Sentire mettere in dubbio l’efficacia del suo lavoro, di quello che definisce da giorni il suo più grande successo lo sta snervando.
“Ascoltatemi, - prosegue Shelley – ammesso che “fisicamente” la malattia non esista nei cloni, dobbiamo però convenire che essi ne manifestano ugualmente i sintomi. E che, in ogni caso, il clone è morto.”
“Fin qui ti seguo.” Caputo si mordicchia nervoso le pelli attorno alle unghie.
“Secondo me ci stiamo scordando una cosa. Noi diamo per sicuro che la malattia non sia più nel nostro amico. Il problema è che non lo sa il suo cervello.”
Shelley sfodera un sorriso felice, come un bambino che ha appena conquistato un buon voto.
“Quindi – Caputo aggrotta la fronte, gesto consueto quando “processa” – tu dici che il suo cervello continua a considerare il corpo malato fino a causarne la morte.”
“E’ l’unica spiegazione plausibile. - Byron, sollevato da questa teoria sprofonda nella poltroncina. – Una buona idea, Percy. Una buona idea.”
“Sicuramente, - prosegue Shelley con l’espressione trionfante – Walton ha inserito molti dati sulle sue condizioni, sullo stato della malattia. In più sono state inserite tutte le nozioni a proposito di essa. Sempre in linea teorica, il clone è, paradossalmente, il più grande esperto in materia. Il suo cervello considera lo stato della malattia di cui sa di essere affetto, lo confronta con tutta la letteratura in merito, che è contenuta nelle informazioni che ha a disposizione, conclude che sta per morire. Walton infatti è morto. Alle 13 e 45. A che ora avete fatto l’ultimo inserimento?”
Caputo fruga nella memoria: “Stamani, sicuramente. Credo che Walton abbia finito di stendere il resoconto alle dieci e per le undici era tutto dentro il computer.”
“Tre ore dopo aver terminato di scrivere Walton moriva – di nuovo l’espressione bambinesca e trionfante di Shelley illumina il suo volto – e, tre ore dopo il risveglio, anche il clone moriva.”
(.).
Dicendola esattamente come sta, qui la storia, per quanto mi interessa, è finita. Ma negli ultimi tempi ho conosciuto qualcuno che mi ha convinto che il mio atteggiamento, quello che pretendo da te, è eccessivo. Che non è necessario che io mi renda a tutti i costi insopportabile. E, anche se certe vecchie abitudini sono dure a morire, ho deciso che hai diritto a una storia completa. Per cui la finirò. Io resto dell’opinione che sarebbe un tuo diritto, da questo momento, finirtela come pare a te e che quello che segue è un darti i confini del quadro che altrimenti ti saresti potuto dipingere. Che sarebbe stato sicuramente molto più bello di quello che posso dipingere io. C’è da dire però che io mi fido di chi mi ha fatto l’appunto che dicevo. 
Fine.
Quella mattina, era un febbraio dolce, finì le parole. Senza un preavviso, un segno divino. Semplicemente le finì. Si guardò dentro mentre, seguendo l’ormai datato rito mattutino, corteggiava una nuova pagina bianca. E non trovò nessuna parola nuova. Niente da inventare. Niente da raccontare. Nessuna nuova veste in cui informarsi.
Il bianco creativo non era una novità. Sperimentato più volte aveva richiesto tecniche e tempi variabili per essere superato. Ma c’era qualcosa di nuovo in quel bianco. Qualcosa di ignoto e terribile. Forse la sensazione della sua ineluttabile mancanza di termine.
Più in avanti i dottori lo avrebbero definito “grigio” creativo. Non era assenza totale. Ma infondatezza, inadeguatezza, mancanza. Affondava in una melma in cui le idee, sporche, inintelligibili, perdevano valore già nel momento del loro rinvenimento.
Quella mattina però era ancora un bianco. Almeno per l’insoddisfatto Marcus Von Hommenstal.
Rivolse l’attenzione alla scrivania sospendendo qualsiasi altra attività. C’erano così tante cose sulla scrivania: penne, fogli, fotografie. Una lampada di foggia insolita. Era un vecchio dono di un’antica amica. Un portacenere in ceramica con stampata la scritta “Venezia” e una gondola triste. Un oggetto di dubbio gusto. Repellente aveva avuto a dire una volta. Ed era proprio quello il motivo per cui aveva sempre rifiutato di disfarsene. E poi due graffette abbandonate sul piano. Senza una motivazione apparente. Aveva sempre odiato le graffette. Erano così fredde. Così esatte.
Odiava anche i bianchi. Anche loro erano freddi. Asettici. Non è un caso se gli ospedali sono bianchi. Nel pensarlo si ricordò che le pareti dell’ultimo ospedale in cui si era trovato erano azzurre.
I pensieri uscivano ed entravano senza soluzione di continuità. Non si lasciavano trattenere. Era come se la sua mente fosse improvvisamente divenuta impermeabile. Inattaccabile dagli stimoli creativi.
Asettica. Pura. Vuota.
Per un secondo lo attraversò una voglia di muoversi, di allontanarsi da quel posto. Da se stesso. Ma il secondo successivo rifletteva già sul colore del cielo. Chissà perché i pittori antichi lo dipingevano dorato. Poi il pensiero scivolò su Giotto. Sulla sua O. E senza un motivo valido si ritrovò a chiedersi quale fosse il nome del maestro di Boccaccio. Ricordava “Andalò”. Ma non riuscì a dargli un cognome. Poi anche questo fu dimenticato mentre, osservando le prime gocce di una insopportabile pioggerellina primaverile che si stampavano sulle mattonelle del giardino, ricordò che avevano qualcosa a che vedere con la stocastica. Da qui alla matematica del caos il passo fu breve. E la famosa farfalla che muore causando chissà quale traumatico evento dalla parte opposta del mondo schizzò via come un lampo mentre nella foresta cadeva un albero che nessuno sapeva dirgli se avesse fatto o meno rumore.
I pensieri adesso viaggiavano ad una velocità poco prima impensabile. Aveva notato che la necessità di nessi logici di cui aveva sempre sentito un innegabile bisogno si faceva via via più labile.
I pensieri continuarono a passargli attraverso. Sempre più veloci. Sempre meno comprensibili. In ultima analisi sempre meno importanti.
La domestica, la signora Williams, entrò nello studio alle 12 in punto per informarlo che il pranzo sarebbe stato servito alla solita ora nel solito posto. In quel momento Europa, il satellite con l’acqua, stava passando nella mente di Marcus Von Hommenstal. Subito dopo venne superato dai nomi dei paesi fondatori dell’Europa unita per lasciare il passo a Franklin e al suo parafulmine.
Non avendo ricevuto nessuna risposta la signora Williams si ritirò vagamente infastidita. Lui non era certo mai stato persona gentile. Ma molto educato. Forse era preoccupato per qualcosa.
Gli indiani che abbandonavano il cavallo per usare le prime automobili venivano chiamati “Culo di gomma”. Eschimese significa mangiatore di carne cruda. E’ un dispregiativo usato da chi vedeva gli inuit nelle terre desolate del nord. Louis Armstrong era stato soprannominato Satchmo. Da Satchel mouth, bocca di sacco. Sciuscià proviene da shoe shine.
All’ora di pranzo Marcus Von Hommenstal non si presentò. La domestica salì nuovamente le scale. Oggi si comportava veramente in un modo strano. Quando entrò nella stanza era veramente preoccupata. Aveva bussato più volte senza ricevere risposta. Lo trovò seduto alla scrivania, nella stessa posizione in cui lo aveva visto prima.
Nella mente di Marcus Von Hommenstal i concetti si andavano semplificando. La sintesi prendeva il sopravvento. Impossibile da descrivere. In “2001: Odissea nello spazio” Kubrik ha tentato di rendere visibile un concetto simile. Anche questo pensiero, ridotto a poche immagini, aveva attraversato la sua mente. Poi cerchi nel grano, la sindrome di Stendhal, il Necronomicon.
Una porta si spalancò nella sua mente e tutti i pensieri vi precipitarono lasciandolo in una situazione di beato silenzio.
Intorno a lui c’erano i domestici e un medico.
Non reagiva da tre giorni.
Sdraiato nel letto rifatto con cura dalla domestica giaceva senza vedere nessuno. Senza sentire niente. Senza un pensiero che potesse attraversargli la mente.
Non era escluso dal mondo esterno. Sentiva le voci e vedeva i volti. Ciò che non trovava erano i collegamenti.
Durò trentaquattro giorni lo stato catatonico di Marcus Von Hommenstal.
Durante quel lungo periodo venne vegliato continuamente.
Le più fantasiose teorie vennero enunciate in quella stanza.
Vennero tentate cure.
Inventati nuovi metodi per risvegliarlo.
Marcus Von Hommenstal aveva finito le parole. Aveva finito i pensieri. Aveva terminato i concetti.
Per questo era morto.
C’era voluto soltanto un po’ più del previsto per capirlo.
 (.).
Ripensandoci però, così è troppo ovvio. Un finale. Un finale anche un po’ americano, eccessivo. Nessun lieto fine, certo. Ma comunque qualcosa di vagamente spettacolare. E forse non è proprio quello che ci voleva. Riproviamoci.
Fine (II).
Negli ultimi anni della sua lunga vita, Marcus Von Hommenstal attraversò lunghi periodi di depressione. La sua opera, tanto importante agli occhi dei contemporanei, gli pareva vuota, inutile. Aveva cominciato a chiedersi perché tante parole, perché tutti quei libri. Quanto era lontano dal suo iniziale proposito? E poi, quale era stato quel proposito. Perché aveva scritto il primo libro?
Narcisismo, certo. Sarebbe stato impossibile farne a meno (eppure, ne era certo, questa molla era successiva. Ricordava il vago disinteresse degli inizi, quella sorta di deprivazione sensoriale sperimentata un tempo). Questo si rispondeva. Ma c’era altro. C’era la convinzione di avere un’importanza nel grande disegno. Strano come un ateo quale si riteneva avesse questa visione. Questo grande Tutto che gli ricordava le tesi di Averroè. Una specie di Dio laico.
Si perdeva spesso in queste riflessioni.
Ma anche assumendo per vero il fatto di avere un posto nel disegno, quale funzione aveva cercato o voluto svolgere? Credeva fermamente che, attraverso i suoi scritti, fosse suo compito illustrare il mondo così come lo vedeva, proporre ipotesi e spunti di discussione. Svelare la verità così come gli si presentava.
Certo, era arrogante da parte sua credere di essere depositario di qualche verità. Ma era questo che sentiva. E niente aveva mai fatto traballare questa certezza. L’acume del suo intelletto, unito alla grande capacità ricettiva del suo cervello, lo avevano posto in quella posizione. Lui non aveva fatto altro che adattarsi.
Gli anni che, lentamente ormai, passavano (strano come si fosse trovato a notare il dilatarsi del tempo negli anni della sua vecchiaia) non avevano fatto altro che rinforzarlo nelle sue convinzioni.
La depressione lo prendeva quando si rendeva conto di non essere riuscito, per quanti sforzi avesse fatto, a rendere consapevole il mondo, l’intera umanità. Sarebbe stato comunque un compito improbo. Non sarebbero bastate tre vite. Ma, ciononostante, si sentiva frustrato dall’esigua quantità di seguaci che era riuscito a raccogliere.
Seduto nello studio, dove passò l’ultima mattina a fumare e scrivere, solo, ricevette alcune visite. Rimasto solo, prima dell’ora di pranzo, si mise a guardare fuori della finestra, nel giardino dei mandorli. Come gli piaceva affermare, era così che guardava la vita. Da dietro una finestra.
Lanciò un’occhiata a tutte le carte che ricoprivano la sua scrivania. Erano una quantità impressionante. Coprivano completamente il ripiano. Alcune erano scivolate sul pavimento. E lì sarebbero rimaste a lungo, lo sapeva. Altri fogli, stivati nelle scansie di una grande libreria a giorno, ingiallivano.
Guardò con odio il quaderno sul quale stava prendendo appunti per il prossimo romanzo.
Per la prima volta consapevole della propria finitezza, dell’impossibilità del compito che si era prefisso, prese a singhiozzare.
Era stato tutto inutile. Questa semplice constatazione, che per la maggior parte degli uomini è ovvia, metabolizzata fin dagli anni della pubertà, fece scattare una nuova molla.
Prese gli svedesi che teneva nel cassetto della scrivania. Si infilò una sigaretta in bocca e accese il fiammifero. Tirò una boccata profonda.
Prese il quaderno e avvicinò la fiamma all’angolo. Prese fuoco immediatamente. Usò il quaderno per incendiare i fogli sulla scrivania, poi lo lanciò nella libreria.
Venne ritrovato lì, dopo che l’incendio aveva distrutto la casa, dai soccorritori. Seduto, nella stessa posizione nella quale, solitamente, guardava la vita.
Il suo ultimo libro, dal titolo “Perché scrivi?”, largamente incompleto e integrato da appunti recuperati dopo l’incendio o presso il suo editore, è stato tradotto in venti lingue e, a venti anni dalla morte continua a essere uno dei più letti nel mondo.
(.).
No. Forse preferisco il primo. Anche questo è americano. Con le fiamme a purificare e tutto questo super-io. Mi dispiace. Non li so ancora scrivere i finali. Forse devo ancora capirli bene io, i finali.
Fine (III).
Il pannello murale segna le 13.00 del 28 febbraio 2832. Un tremito, come un battito d’ali o un colpo perso dal cuore, un brillare di stelle davanti agli occhi. I numeri tremano per alcuni secondi mentre il reattore, come da programma, si spegne.
(.).
E poi, alla fine di questo panegirico roboante, anche ammettendo che siamo simulazioni, riflessi in uno specchio rotto, simulacri vuoti riempiti soltanto dalle nostre percezioni, ricordi, aspettative, che l’illusione di un’anima sia l’unico pretesto a tenerci vivi, coerenti in qualche misura, ammettendolo dicevo, ammettendo che tutto non abbia altro senso, credendo intimamente che tutto sia soltanto costruzione, che l’albero, solo nell’intimo della foresta, cada senza rumore, o magari neanche cada, in cosa saremo diversi? Questa particolare fede ci renderà migliori? O anche peggiori, che va comunque bene?
Che la conoscenza ci renda liberi.
  
Apocalisse o estinzione.
JVH si stupì di quanto fosse stato facile abbandonare il labirinto. Trovandosi fuori, alla luce del sole, così calda rispetto a quella spenta, triste del labirinto, emise un sospiro di sollievo. Bastava un atto di volontà.
Un semplice atto di volontà, proprio.

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