venerdì 16 novembre 2012

Evitando di dirvelo



Prologo
“Fai vedere lo scheletro.”
Le parole sono state proprio queste.
“Fai vedere lo scheletro. Non puoi pensare che i tuoi lettori (laddove dovessero essercene ndr.) continuino a seguire ‘sta cosa prolissa, verbosa e assolutamente non-interessante, se non gliene dai motivo. E se non vuoi realmente raccontare una storia, e quindi affascinare con quella, ma continuare a usare stralci di storie, rendilo almeno partecipe del progetto. Mostra lo scheletro.”
Ora, qui la frase è costruita meglio e fa anche il suo bell’effetto. Ma il succo era proprio questo. E credo che avesse il suo buon fondamento di verità. Tant’è che sono qui a mostrare lo scheletro. Ma se non sei uno a cui questa cosa dovesse interessare puoi saltare il tutto. Sono note orrendamente didascaliche e sufficientemente oscure per non svelare in anticipo. In definitiva, questo potrebbe risultare oscenamente inutile laddove tu fossi dotato della sensibilità necessaria a capire per “simpatia”. Ma sono al decimo libro, e ormai lo so che è improbabile che tu ne possegga a sufficienza.
Per cui mostriamo lo scheletro: inutile che tu ti affezioni alla storia, tanto ne racconterò soltanto dei pezzi e in modo sconclusionato. Inutile che tu cerchi la famosa coerenza significativa, tanto sarà chiara (spero ndr.) solo alla fine. Forse dice bene la solita criticatutto, la stessa dello scheletro, che mi ha detto che ci si affeziona ai miei personaggi solo dopo la fine del libro. Che poi è da vedere se io voglio che ci si affezioni ai miei personaggi. Sono miei. Io ci sono affezionato. Che ci si affezioni qualche altro mi fa anche un po’ rabbia. Ma smettiamo di divagare e torniamo al punto.
L’obiettivo di tutta questa manovra è esporre una tesi, che potresti confutare o meno, che potresti accogliere come la verità rivelata o rigettare come una blasfemia. Che poi, io credo, è l’obiettivo di tutti quelli che si mettono a scrivere, l’esporre una tesi, dico. Da quello che mi si racconta non è così. Comunque io lo faccio e per farlo uso brandelli di storia che cerco di comporre in un arazzo. Solo la visione dell’arazzo completo consente di apprezzarne le trame. O di non apprezzarle.
Ora lo sai e puoi quindi decidere di piantarla qui. Altrimenti, nel caso che il tuo autolesionismo ti spinga a continuare, mostro qualche metacarpo in più.
Lo stile di ogni pezzo è accordato (questa era l’intenzione ndr.) al contenuto. Per cui ci sono alcuni pezzi molto “pesi” (il primo ne è un esempio e lo so che sarebbe meglio iniziare con qualcosa di più accattivante ma non è possibile) e altri più “scorrevoli”. Alcuni prolissi, altri sbrigativi. Lo faccio per cercare di inserirti, quasi con violenza, nello scenario.
Il titolo ha la sua bella importanza e fossi in te lo “peserei” con attenzione. Per essere precisi tutti i titoli hanno la loro bella importanza e ci sarebbero anche altre due o tre cosette in questo senso che dovrei dirti ma poi la solita tipa dello scheletro troverebbe da ridire e lo sai che alla fine tendi a essere verboso e la gente si stufa. Ma dove la vedrà tutta questa gente?
Comunque, l’intero romanzo (forse è un po’ eccessivo definirlo tale ndr.) è decisamente anarchico. Userò tecniche differenti e, spero spesso, ti sorprenderò.
Se sei arrivato qui, puoi anche continuare.
La solita criticatutto dice che fin qui era facile continuare. E’ dopo che è dura.
Ma ora basta ascoltarti.
‘Notte amore.
***
Sull’idrochinone
Esistono alcune sostanze, dette inibitori, che hanno come preciso scopo quello di ritardare, quando non impedire, il compiersi di una reazione. E’ il caso dell’idrochinone. Esso viene usato per impedire la polimerizzazione dello stirolo.
Detta polimerizzazione origina il materiale che commercialmente conosciamo come polistirolo. Lo stirolo si presenta in stato liquido e diventa solido solo dopo il processo di cui dicevamo, anche a temperatura ambiente. Per questo la presenza dell’idrochinone è indispensabile per evitare che la polimerizzazione avvenga in momenti non adeguati: immaginatevi un’autocisterna che si ritrovi un carico solido all’interno. Avrebbe quantomeno difficoltà al momento di doverlo scaricare. Inoltre la polimerizzazione dello stirolo non è reversibile. Per cui, nel caso in cui avvenisse all’interno della cisterna ci troveremmo, per sempre, con un blocco di materiale chiuso in un posto da cui non potremo estrarlo, rendendo inutili sia il prodotto che il contenitore. 
L’effetto dell’idrochinone non è eterno. Anzi, l’inibitore perde efficacia con il passare del tempo. Pertanto il prodotto deve essere regolarmente monitorato ed è necessario aggiungerne progressivamente per mantenere lo stirolo in fase liquida.
In linea teorica, ma non so se nella produzione dello stirolo questo avvenga, anche se lo sospetto, l’effetto dell’inibitore può essere annullato tramite l’uso di un catalizzatore
***
1.
Qualcuno che mi racconti fino a dove si spinge il mio diritto a essere infelice, fino a dove la grandeur eroica della sofferenza arriva e dove inizia il dolore dentro, fino a dove posso amare a vuoto prima che il muscolo simpatico inizi a essere troppo piccolo per contenere tutto il nero, prima che inizi a traboccare e renda infelici quelli che mi stanno attorno, questo ci vorrebbe adesso, qualcuno in grado di cantarmi le cose, di capire e spiegare e amare e soffrire per brevi momenti quello che non capisco e spiego e amo io, e ancora che sappia volermi oltre la coltre, che dissipi per un po’ questa nebbia, un soffio, freddo di piedi trentasette nell’incavo delle ginocchia mentre fuori piove e unghie graffiano, occhi verdi di un verde imbarazzante e sorrisi schermati da mani fra pudore e timore e sapore di baci antichi e nuovi assieme e la voglia di non smettere mai, che essere infelici è facile abbastanza da non richiedere uno sforzo, mentre continuare a esserlo ti mina e spinge via, più lontano, i punti di riferimento e diventa melassa scura in cui, indistinto il sapore, si assomiglia tutto e arrivi a odiare se non odiarti e amare fragorosamente e molestamente incurante del nuovo dolore che sei e sarai e sarai e sarai e sarai, in questo carosello inutile lungo settanta, ottanta, se sei sfortunato novanta anni in cui non vedi premio né, soprattutto, gara, in cui la parte più grande è autolimitazione imposta o limitazione autoimposta mentre il resto sono immagini da cartolina che trattieni rimuovendo tutti gli escrementi canini che hai visto e sogni riflessi, desideri inappagabili, bile e un principio di ulcera che ti ricorda che sei vivo così limiti l’esistenza alle funzioni primarie: mangiare, dormire, accoppiarsi, eliminare rifiuti, produrre, cantare una canzone la mattina e ascoltare Jannacci in milanese che se tutti odiano questo disco a me deve piacere per forza, che poi la cosa che ti dovrebbe colpire è che ti piace davvero e pensi che ormai il difetto è cronico, che di difetto, di malfunzionamento si deve trattare che tutti gli altri si attaccano ai brandelli di felicità con una tenacia che non hai mai capito mentre nel ricordo sai che ti è sempre capitato di lasciarla scivolare via e proprio adesso che lo hai metabolizzato e aspetti con calma la fine dei prossimi quarant’anni, probabilmente gli ultimi, quasi fosse un appuntamento necessario da smarcare, inciampi in qualcosa che ti fa credere che si può ancora sfuggire, correggersi l’errore, guarire, strappare un brandello di felicità nuova cui finalmente attaccarsi con tenacia per la paura che possa essere veramente l’ultimo ma sai che ti stai illudendo perché è un prurito sotto la pelle delle mani, allarme automatico acceso al segnale di soccorso, che non puoi grattare via perché sei tu e sai che infetterai un’altra persona che vive in una melassa tutta sua e che farebbe a meno di mischiarla perché l’infelicità non trova barriere e può solo crescere e volevo dirti che ti potrei amare amica mia, che poi sarebbe bello definirlo che io non ci riesco, perché amore si usa spesso ma si capisce solo dopo e forse neanche dopo, quando si ridefiniscono i ricordi dell’amore ma non l’essenza che poi dovrebbe essere assenza, io credo, annullamento, capacità di vivere per te e di te e sospendere il processo e non pensare e sentire e basta, basta, basta voglia di urlare, basta frenesia e ricerca, basta questa maledetta infinita corsa, ecco, forse proprio questo, riposo per il muscolo simpatico, tempo per guardare qualche uccello colorato di giallo dal sole che scende (grazie anche di questo) senza volerne scrivere mai, senza il bisogno di raccontare a qualcuno che non sia Te quello che sono le immagini, i colori più limpidi, più brillanti che i miei occhi colgono da quando ti penso soprattutto quando non dovrei e adesso, nudo davvero, con tutto l’inutile soffrire che sono stato, sono, sarò, ti chiedo di raccontarmi la solita, vecchia, mendace storia del per sempre e di crederci per un po’ e di ascoltarmi mentre te la racconto, mentre le pupille si allargano e la pelle si tende, i pori si aprono e il respiro si fa più lieve in quella meravigliosa composizione di chimica corporea che chiamiamo innamorarsi e che non sarà per sempre ma sarà, che mica è una cosa da poco, perché io ti potrei amare amica mia, lo sai, ti amerò comunque e potresti amarmi anche tu, respirare aria più leggera e sospendere il flusso, ricordarti quanti brividi sulla schiena si provano per un bacio rubato e una mano che sfiora la tua e sapere, sapere davvero, che quei brividi corrono sulla mia pelle come stanno correndo sulla tua, essere quel qualcuno che mi racconti fino a dove si spinge il mio diritto a essere infelice, fino a dove la grandeur eroica della sofferenza arriva e dove inizia il dolore dentro, fino a dove posso amare a vuoto prima che il muscolo simpatico inizi a essere troppo piccolo per contenere il nero.
E, per un attimo, lo neghi.
***
IV secolo a.C.
Per i greci il cielo appare un mondo perfettamente regolato e immutabile. Al contrario, il mondo degli uomini è teatro di discordie, di corruzione, di perturbazioni. In questa cosmologia, l’universo è finito e formato da un sistema di sfere, con l’uomo al centro, che servono da supporto ai movimenti planetari attorno ad una terra immobile. Il cosmo è diviso in due parti: la regione sublunare e quella sovralunare. Nei cieli il movimento è circolare, nel sublunare il movimento è rettilineo; nel mondo in basso, ci sono quattro elementi: l’acqua, il fuoco, la terra e l’aria. La Terra è immobile al centro del cosmo. Per Aristotele i corpi celesti sono costituiti da una materia inalterabile: l’etere.
2.
Milo Vukitch si svegliò quel giorno al suono delicato della piccola sveglia bianca. Con un movimento fluido, arrotondato dall’abitudine, raggiunse il pulsante di spegnimento allungando semplicemente il braccio. Quel movimento restò unico. Ritratto il braccio, il corpo restò immobile per diversi minuti. Completamente avvolto nel lenzuolo arancione, Milo Vukitch respirò gli ultimi momenti di pace della sua giornata. La polvere, resa visibile da un raggio luminoso piatto e ampio che tagliava a metà la stanza, allargandosi fino a disegnare una linea sulla parete dietro la testiera del letto, continuò il suo movimento incoerente, danzando indolente, quasi stanca. Milo Vukitch non vide la polvere danzante, né il raggio di luce. Attese pazientemente che le sinapsi si lubrificassero, quindi con un movimento rapido, scagliò il lenzuolo ai piedi del letto e si alzò in piedi, di scatto, qualcosa che doveva essere rimasto dai tempi, ormai remoti, della leva militare, un atto sorprendente al confronto con la pacatezza del resto del quadro, ossimorico lo si potrebbe definire. Un attimo, proprio. Quindi i movimenti tornarono quelli che ci si possono aspettare da un uomo al risveglio. Milo Vukitch si aggirò per la camera alla ricerca delle pantofole. Dopo alcuni infruttuosi tentativi lasciò perdere e si avviò verso la cucina scalzo. Il pavimento freddo gli comunicò una scossa vigorosa e, quasi per incanto, fu veramente sveglio. Brucò un caffè nero senza zucchero e due biscotti al sesamo, in piedi, vicino al bancone. Guardò senza comprendere due lettere appoggiate sul piano. Ne prese una e la avvicinò al volto. Poi, sempre senza comprendere, ci vuole troppa pazienza la mattina per mettersi a riordinare i pensieri, la rimise dove si trovava e si diresse verso il bagno. Davanti allo specchio si studiò il viso, probabilmente alla ricerca di una nuova ruga o di un’imperfezione della pelle. Si lavò energicamente spruzzandosi acqua fredda sul volto, per spezzare definitivamente la morsa del sonno. Strofinò i polpastrelli una, due volte. Riportò la sua attenzione alla punta delle dita. Continuando a strofinarle le avvicinò agli occhi. Una sostanza strana, lievemente abrasiva, di un colore malato fra il giallo e il marrone, sembrava provenire dai suoi polpastrelli. Un sudore sporco, inodore. Forse il piano del bancone aveva bisogno di una robusta pulita. Tornò indietro e scrisse un messaggio per la domestica su un foglietto giallo che attaccò sul frigo. Poi fece il percorso inverso e, giunto al lavabo, si lavò le mani strofinandole con forza. La strana sostanza sparì nel gorgo del lavandino e Milo Vukitch, soddisfatto, si accarezzò le mani. Lisce, rosee, con le unghie non troppo corte ma sufficientemente curate. Forbici e limetta. Un piccolo vezzo mutuato da un’antica compagna di giochi. Completata la toilette mattutina tornò in camera, scelse con cura un abito grigio in mezzo a decine di abiti grigi che stavano nell’armadio, si vestì e prese la valigetta appoggiata sul comò. Un’austera valigetta, in pelle, rigida, con la chiusura con la combinazione mai settata, sempre lo 00000 della ditta costruttrice e quando mai vuoi che un ladro ci pensi. Un’occhiata alla specchiera dell’armadio rimandò l’immagine misurata e precisa che si aspettava. Quindi, senza perdere tempo, raggiunse la porta di ingresso e uscì nel sole incerto di marzo. Mentre chiudeva con tre mandate si fermò improvvisamente e tornò a strofinare la punta delle dita. La sostanza, forse più scura alla luce del sole rispetto a quello che aveva pensato prima, era nuovamente sui polpastrelli.
***
Pensieri dal bozzolo
Niente improvvisa luce o lampo. Raramente le cose avvengono così.
La consapevolezza, poi.
E la consapevolezza dell’inadeguatezza, inutilità addirittura.
Eppure mi si ritrova inutile la vita passata e ogni atto, movimento, avvenimento. Impossibile, e ancora inutile poi, determinare quando o dove.
Il tempo passa anche adesso, e prima è passato, anche. Ma la scansione è diversa. Strano nascere ancora.
Decompilerò il pensiero e seguirò altri percorsi. Credo sia la via di questa nuova
Nuova cosa? E perché nuova poi?
Niente improvvisa luce o lampo. E anche stavolta una nebbiolina di indistinzione a nascondere le linee perfette di prospettiva. Il disegno sfoca e non ho la voglia di indagarlo oltre.
Questa sì è una bella differenza da prima.
Le ali di farfalla sono talmente fragili. E le dita si coprono di polvere. Eppure inducevano il volo. In controluce trasparenza colorata. La vita si spezza in un soffio e non c’è alito di crudeltà negli occhi bambini.
Prometeo era decisamente uno stronzo per chi, come me, indugia nell’andatura parameciale. Testa spigolo testa spigolo e via andare. Tacco punta baby one two three, tacco punta baby one two three. Un altro neurone occupato da un ricordo inutile. E questo è un bello spigolo, sai? Perché i neuroni non si ripuliscono. Muoiono e basta. E non muoiono neanche a comando. Non esiste un’eutanasia neuronale. Nemmeno in Olanda. Che chissà se esiste l’Olanda? La Francia non esiste. Lo dice un mio amico e io ho deciso di crederci che non esiste. E sarebbe inutile dirmi: “io l’ho vista.” I parameci sono ciechi e credono solo a quello che toccano. Come San Tommaso. Altro neurone intasato.
Niente improvvisa luce o lampo. E stavolta so che non ci sarà mai improvvisa luce o lampo. Non so cosa ne pensasse Socrate ma io qualche cosa la so e me la tengo stretta. Ricomincio da tre, minimo.
***
Ulna
Elettricità statica. La linea di luce all’orizzonte si assottiglia sublimando tra arancio e rosso contro il blu-grigio-nero degli ammassi sovrastanti, cumuli che sanno di bambagia e d’inchiostro, l’aria profuma più sottile e quel vento, che vento non è, tanto sa di ritorno d’aria, come se un enorme buco si aprisse da qualche parte alle spalle, spazza. Non credere a quelle storie sull’odore dell’elettricità, sul sapore di rame sulla lingua, io e te, lettore, lo sappiamo che è tutta letteratura. La tempesta è nei colori, questo vale per qualunque latitudine, e nell’energia statica. Quando il lampo è ancora lontano che ancora avverti i tuoni come vibrazioni e da qualche parte piove e tu lo sai, mai capito cosa sia che ti da questa certezza resta il fatto che di certezza si tratta e io e te lo sappiamo, e la luce si altera piano, quando arriva l’innaturale crepuscolo, è sulle braccia che la terra traccia i segni. Nessun passaggio rapido né alterazione avvertibile, ma il corpo reagisce. Probabilmente il rapporto tra uomini e pianeta è più intimo di quanto i sensi non testimonino. Il movimento orripilatorio è lieve, impercettibile, nei numerosi momenti in cui il cervello cavalca altre strade inosservato, albero che cade nella foresta intricata, solo e nullo. Tuttavia vero, palpabile, esistente, vivo. Poi, un giorno, al tavolo di un bar all’aperto o sulla gradinata di uno stadio, lo ritrovi. E sai che c’è stato ogni volta e che ogni volta ci sarà. E se sei attento ti accorgi di un sacco di cose nuove. O antiche. Sei improvvisamente parte di questo ecosistema, consapevole dell’influsso delle fasi lunari, conscio del ritmo della respirazione, grato per ogni goccia di sudore termoregolatore che il corpo sta producendo, partecipe dello scopo di vibrisse, papille, compagno dei milioni di corpi che hai toccato, sfiorato, visto. Sai in anticipo che aprendo la portiera prenderai la scossa, che il primo bacio sulle labbra sfrigolerà rapidissimo e abortito, che il timore renderà il secondo molto cauto. Poi la tempesta arriva, non si parla della pioggia, bada bene, che ne è solo una delle manifestazioni e sicuramente non la più imponente, e il tempo della percezione viene spazzato via sostituito dal cinetismo, dall’azione frenetica, da un’Essere strano contrapposto a tutto quel Sentire.
3.
C’erano comunque stati anni diversi per il nostro protagonista, anni più lieti, meno sagomati dagli urti con gli spigoli del tempo. Che non sembra, ma le smussature significano, sai. C’erano stati anni differenti, dicevamo. E anche Milo Vukitch era stato diverso: anche lui, come tutti, aveva creduto nell’amore. Anche lui, come tutti, aveva creduto nell’arte. Anche lui, come tutti, aveva creduto nella propria (arte/amore/personalità). Qualcosa che lo faceva sentire apparentato, affratellato ai primigeni. Barbarico e istintivo. Aveva amato, in definitiva. Anche Milo Vukitch. E, credendoci, lo aveva scritto, gridato quasi. O così pensava.
Del dolore, del lenimento e forse dell’amore.
Oppure soltanto una cosa di gatti.
Sei i sensi.
Sensori sottocutanei sensibili.
Vibrisse cerebrali.
Fra piatti smangiucchiati e azzurro di luce televisiva di un’intimità nascosta agli occhi degli altri, ritratti restituirono meticolosamente un quadro perfetto.
Alieno a quell’azzurro,
lontano soltanto per spazio.
Sei i sensi.
Non cinque come insensatamente tramandato.
Uno sguardo distratto allo specchio a cercarsi una ruga nuova la scoprì.
Tic tac tic tac tic tac tic tac
(Sfere e lancette si muovono anche quando il mondo rischia di morire)
Su sfondo latte
(le piume sono un ricordo di nonna soppiantato dal lattice)
guardò un angolo alla mia sinistra e le parole inciamparono fra denti accennati
sotto la linea severa delle labbra.
Armature di cheratina a proteggersi.
Le spalle immobili e nude,
levigate e rotonde,
dimenticarono di sorridermi.
Poi qualcosa ritrovò la strada,
forzando la resistenza di quella linea sottile.
Io bersaglio e contemporaneamente freccia.
Sapere in anticipo non serve mai a proteggersi.
(Ricordati di non credere a quelli che credono nella conoscenza)
Delle sue lacrime mi prese un dolore sottile
come di taglio di carta
e la mia arte inutile non bastò.
Dopo, di essere cuore immaginai.
O, più semplice ancora,
di mostrarle le vene.
Si perse in mezzo a baci bambini.
E, più presto di quanto avessi pensato, il sonno ci abbracciò
come una cosa di gatti vecchi davanti a un camino.
           
***
Pensieri dal bozzolo
Deus donat mihi sanitatem accipere res quas non possum mutare, fortitudinem mutare quae possum et sapientiam cognoscere differentiam (non voglio nemmeno pensare quanti cerchiolini rossi avrebbe potuto tracciare il mio professore).
E questo, tanto per continuare, cui prodest?
Tutto questo bisogno di claritas, dove mi porta? O meglio, dove mi ha portato? Perché se la risposta è “qui”, allora non è andata neanche male. Ma se la risposta è “un po’ di tempo fa” allora è stata una cosa storta.
Quindi la domanda è oziosa, non conoscendo la risposta. Tanto vale affidarsi all’istinto. Che dice che non era quella la via da percorrere. Chissà se la pensava così anche il signor Samsa. Gregor, intendo.
***
Omero
Tempesta, bufera, burrasca, uragano, temporale, diluvio, ciclone, fortunale, procella. Evitando di tirare in ballo le isobare, i millibar, l’alta e la bassa pressione, i calli dolenti e le vecchie fratture, i reumi, l’artrite o chi per esse, chi può dire perché? O prevedere quando arriverà? Certo, a posteriori è molto semplice. Come sia stato possibile non vedere i segni? Eppure era chiaro per tutti. E se avessimo voluto guardare, allora… Tempesta, bufera, burrasca, uragano, temporale, diluvio, ciclone, fortunale, procella. Arriva comunque inaspettata, troppo rapida per permetterti una difesa efficace. L’unico scampo è esserne sorpresi al chiuso, fra mura possibilmente amiche, magari con in mano un bicchiere di qualcosa di caldo o alcoolico. Ma spesso, più di quanto vogliamo ricordare, ci sorprende indifesi, esposti, fragili e inadeguati. Anche questo lo sappiamo, tu e io. Ancora: capita di perdersi nell’ammirare il maestoso disegno, la simmetria perfetta e in certa misura magica, l’arazzo meraviglioso che la vita ti sta mettendo davanti. E baloccandoci nel guardarlo trascuriamo i particolari importanti: sarà violento, sarà sconvolgente, sarà dirompente. Poi è tardi.
***
4.
L’ambiente sobrio dell’ufficio lo avvolse. L’ordinata animosità delle segretarie, il chiacchiericcio composto delle sette e quaranta attorno alla macchina del caffè e il rumore discreto dell’impianto di riscaldamento ancora in funzione nonostante il tepore della stagione erano le note consuete che precedevano l’inizio della sua attività. Aprì la porta dell’ufficio e si sedette alla scrivania rinunciando all’usuale mistica del conviviale caffè con i colleghi.
La sostanza, strofinata, si staccava dalla punta delle dita, quasi impalpabile ma concreta, aggregandosi in residui e cadendo per terra, simile ai pallini di certa lana infeltrita e pastosa. Il colore era decisamente giallastro, ocra si sarebbe detto.
L’interfono sussurrò, mischiandolo a un fruscio come di carta che taglia i polpastrelli: “Vukitch”.
Come risvegliato si alzò e, dopo aver controllato l’ora sull’orologio da polso, uscì dirigendosi verso l’ufficio del direttore. Il briefing delle otto e trenta era uno dei momenti cruciali nella sua giornata. Il direttore, un uomo corpulento e gioviale, lo accolse con il sorriso di circostanza. Scambiarono poche parole, cose che non interessano la nostra storia, si salutarono e tornarono al lavoro. Milo Vukitch era il miglior vicedirettore. Fra i due c’era identità di vedute e di stile. Le loro chiacchierate non erano mai particolarmente verbose o lunghe. Diverso il loro rapporto fuori dall’ufficio, improntato a una franca amicizia. Avevano altri interessi comuni, quali il teatro e la letteratura russa. Nelle frequenti visite che Milo faceva al direttore, nella sua casa all’estremo oriente della città, avevano spesso parlato, immemori degli impegni lavorativi, a lungo.
Tornò a osservarsi le mani. La strana sostanza, che prima copriva la punta delle dita, adesso si era impadronita dell’intera falangetta. Ripassò il menù della cena della sera precedente alla ricerca di una causa per tanto inusuale effetto. Continuando a strofinarsi le dita osservò incuriosito il materiale che andava a depositarsi a terra. Rientrò in ufficio e prese l’agenda. La sfogliò alla ricerca di un numero. Si fermò alla s e, sfiorandoli con le dita, prese a scorrere la lista dei nominativi. Raggiunse “Schiele (medico)”. Afferrò la cornetta e, giusto prima di comporre il numero, ebbe il tempo di accorgersi delle due strisce giallo scuro che erano rimaste sull’agenda. Tenendo la cornetta fra la spalla e il collo, con la destra compose il numero mentre, con la sinistra, rimuoveva le due strisce. Oltre a essere abrasiva al tatto la sostanza era leggermente adesiva.
***
5.
Gli occhialini tondi, leggeri, portati sulla punta del naso, parevano dover cadere ogni volta che il medico chinava il capo. Adesso era concentrato a osservare le dita del paziente. Le osservava molto da vicino, senza proferire parola. L’espressione corrucciata dell’uomo aveva sempre divertito Milo. Questa volta ci trovava un sintomo di preoccupazione. Lui stesso era preoccupato. Il fenomeno andava aumentando velocemente. Anche una buona metà della falangina era adesso coperta. E non sussistevano dubbi in merito: era lui che la secerneva. In piccola quantità, certo, il materiale ricopriva con un velo di meno di un millimetro di spessore la punta delle dita. Ma, appena rimossa, si riformava, in pochi minuti. Da uomo pratico, si era procurato un paio di guanti per evitare che altri si rendessero conto della cosa.
Il medico staccò una striscia di materiale dalle sue mani.
“Senti dolore, o qualche sensazione particolare?”
“Nessuna. E’ come staccare una pellicina morta. Sento che viene tolta e basta.”
Il dottore era basito. In principio aveva pensato a uno scherzo. Erano amici di vecchia data e, da giovani, ne avevano fatti di scherzi. Ma Milo non era tipo da scherzi. Poi la voce del suo amico, già al telefono, sembrava sinceramente preoccupata.
“Sembra una sorta di fibra. Non ho mai visto nulla del genere.”
“Che posso fare?”
“Prima di tutto ti facciamo fare un’analisi del sangue. Che male non farà. Poi facciamo analizzare questa cosa qui.”
“E poi?”
“Poi inizieremo a preoccuparci. Per ora non mi sembra niente di pericoloso. Stai tranquillo. Consulterò internet. Per stasera sapremo qualcosa.”
Si salutarono. Uscendo Milo notò che il medico gli stringeva la mano senza togliere i sottili guanti di lattice. Questo fece naufragare il rinascente ottimismo che lo pervadeva. Non si sentì di tornare in ufficio, compose il numero sul cellulare. Farlo con i guanti non fu operazione semplice.
“Non mi sento troppo bene. Vado a casa, mi prendo un’aspirina e mi infilo a letto. Chiamatemi se ci fossero difficoltà.”
“Certo signor Vukitch” rispose l’impersonale voce della segretaria.
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Inizio del XVII secolo
Per Keplero i movimenti degli astri sono quelli di corpi fisici sottomessi ad un’accelerazione che descrivono ellissi, cioè dei cerchi deformati. I movimenti imperfetti dei pianeti si ricongiungono con un mondo terrestre corrotto. L’estensione del movimento celeste alla terra e della fisica terrestre al cielo suppone una materia identica, con delle medesime leggi fisiche.
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Femore
Per la comprensione della nostra storia è necessario adesso abbandonare il normale correre degli eventi, che peraltro non interessano direttamente la vicenda, mettere da parte Milo Vukitch e concentrare l’attenzione su un argomento totalmente diverso. Perdonerete quindi se quanto segue ha poco del narrato, se questa parte del racconto non sposerà il vostro gusto di lettore. Prendetela come una sorta di posologia, un libretto di istruzioni, brevissimo in verità, senza il quale non riuscireste a innescare il meccanismo virtuoso della comprensione.
Le esplosioni avvengono molto rapidamente. La formazione della ruggine richiede molto tempo. Reazioni chimiche soggette a velocità differenti. Cinetica chimica. Questa velocità può essere modificata dalla presenza di un catalizzatore. Come esempio prendiamo l’esplosione di una miscela di idrogeno e ossigeno a temperatura ambiente, processo che non avviene fino al momento in cui la miscela non viene a contatto con platino in polvere che, ricoprendosi di ossigeno e provocando un nuovo orientamento delle molecole, le farà reagire più velocemente con l'idrogeno. Altra cosa da notare è che i catalizzatori rimangono inalterati durante le reazioni. Nel caso che stiamo analizzando l’esplosione libera acqua e rigenera il catalizzatore.
Possiamo concludere che , in una reazione, l’unica cosa che rimane inalterata è il catalizzatore stesso.
***
6.
Per la comprensione della storia è inoltre necessario fissare l’attenzione su chi fosse Milo Vukitch, quali le sue passioni, quale il meccanismo dei suoi pensieri (non certo conoscere i pensieri, cosa che all’osservatore non è possibile), gli atti, i peccati e le vanità. Un inventario, il disegno di un uomo non particolare, che l’osservatore non avrebbe mai notato fino a questo fatidico giorno. Un’elencazione di fatti che lo riguardano, e come lui molti. Alcuni si rispecchieranno in Milo, molti invece si crederanno diversi, diversissimi addirittura. Nessun intento educativo in tutto questo, non temete. L’osservatore non insegna. In alcuni casi mostra.
Questo è uno di quei casi.
Possiede
sette completi grigi senza panciotto
quindici camicie il cui colore svaria dal bianco al crema
venti cravatte a disegni regolari
otto paia di scarpe di varia foggia, nere più un paio di scarpe da tennis
due paia di jeans e cinque magliette a colori vivaci
una casa di settanta metri quadri
duecento azioni Enel. E venti della Roma calcio, eredità dei tempi andati
una berlina grigia
una donna fissa
una libreria troppo piccola
alcuni titoli accademici
un sistema home theatre di cui va molto fiero
centoventi cd ordinati per autore
In fondo a un armadio un’antica collezione di Alan Ford ferma al numero centodiciotto
due chitarre, eredità dei tempi andati
due portachitarra, nuovi
un computer con un sacco di files
una certa dovizia di idee e sogni irrealizzati, molti irrealizzabili e per questo catalogati da qualche parte senza malinconia o rimpianto
un bar fornito
i ricordi dei trentanove anni precedenti
Ha più volte affermato di essere ateo, di non credere in niente che sia “oltre” la sua comprensione. In questo comprende Dio, anima, amore. Sostiene che tutte queste cose, e molte altre, sono costrutti mentali e che l’uomo è tanto più felice quanto riesce a illudersi di crederci. Pertanto si considera un infelice resistente. Migliore comunque dei felici per caso che infestano il mondo, che la consapevolezza è l’unica via per sopravvivere.
Apprezza (sempre da sue dichiarazioni) la musica.
Disprezza, odia addirittura, gli stupidi. Interrogato non riesce a fornire una definizione esatta. Conclude dicendo che odia i “suoi” stupidi.
Dovendo elencare gli avvenimenti salienti della propria vita, in una discussione avuta recentemente con un amico, ha detto quanto segue:
- sono nato
- esisto.
Fine
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Radio
Non ci è dato sapere, anche se sarebbe stato importante per la comprensione completa della nostra storia, quale fu la natura del catalizzatore, né il momento in cui il nostro protagonista venne in contatto con esso. Né ne conosciamo la natura. Possiamo supporre soltanto, per deduzione, che questo sia avvenuto poco prima delle vicende qui narrate. E che lo stesso Milo Vukitch ne avesse sottovalutato l’importanza e l’impatto. Al punto da non mettere in relazione questo contatto con gli avvenimenti che lo coinvolsero.
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7.
Aveva scritto per lungo tempo Milo Vukitch nei suoi anni bambini. E molto. Ma era giunto il giorno in cui le parole avevano smesso di violare pagine bianche. A posteriori, le ultime righe che vergò su un foglio furono significative.
Del danno e delle irreversibilità
Negli occhi stanno le cose,
non nelle parole.
Non sono mai le parole che significano,
ma tu vaglielo a spiegare.
Ricordi dei racconti infantili
cozzano facilmente con certe durezze
del mondo e della pronuncia.
E che parole complesse per dirsi
ti voglio baciare.
Tic tac tic tac tic tac tic tac
E non basta mica.
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Extra-muros
Guarda che io lo capisco che avresti bisogno di un disegno che desse senso a tutto questo, di un piano narrativo, di una coerenza evidente. Ma io, più che raccontartela così, nudo davanti allo specchio, non posso fare. O non so farlo, che è più corretto. E, perlomeno, stavolta, c’é la storia di Milo che sto cercando di raccontare per intero.
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Ennesima breve divagazione sul tarlo
E anche qui ci vorrebbero un paio di parole a spiegare ‘sta cosa dei tarli, che se uno non lo sa è dura da capire. Ma poi, in fondo, mi trovo a pensare che se non la sa già è quasi inutile che io provi a spiegarlo.
Il tarlo è animaletto industrioso che tutti conoscono ma che pochi hanno visto. Nessuno che conosca ne ha mai avuto esperienza diretta. Ma di lui sappiamo alcune cose interessanti. Soprattutto, l’animaletto è diventato, per trasposizione, il simbolo del dubbio. Immagino che molte persone abbiano avuto l’occasione di affermare di avere un tarlo che gli rode. O se non l’aveste mai fatto, ugualmente capireste con facilità l’espressione.
E questo ha, per tutti indifferenziatamente, una connotazione negativa.
E qui la cosa mi sfugge. Quasi esistessero le ricette, quasi avessimo sperimentato la perfezione, quasi sapessimo esattamente come le cose si fanno o disfano.
Curateli i tarli. Nutriteli. Senza sareste peggiori.
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8.
Durante il lungo e noioso pomeriggio in casa, Milo Vukitch dette libero sfogo al teledipendente che è dentro ogni uomo mediamente occupato. Seguì i telefilm, ricollegando fili interrotti e ritrovando le storie pressoché dove le aveva lasciate in anni più lieti.
A parte alcuni particolari nell’abbigliamento e nelle pettinature, sfumature che sarebbero sfuggite a uno spettatore costante.
Con il passare delle ore un grande torpore si impossessò di lui. Allungato sul divano con i piedi penzoloni, un tre posti sarebbe stato una scelta migliore ma le sue finanze non gli avevano permesso tanto, prese a sonnecchiare, non dormire, si badi bene, perdendo a tratti coscienza di sé e del mondo.
Quello stato di diffuso benessere che si impossessa degli uomini nei momenti che precedono il sonno era una delle sensazioni preferite da Milo Vukitch e, ogni volta cercava di prolungarla per il maggior tempo possibile.
Si girò con la schiena rivolta al televisore: la voce dei personaggi sullo schermo lo raggiungeva ovattata e, con gli occhi chiusi, Milo Vukitch si gustò la piacevole sensazione. Infilò le mani fra le cosce, caldissime, rannicchiò le gambe in modo da entrare nel due posti, strofinò con la testa il cuscino nel tentativo di trovare una posizione ancora più comoda e confortevole e restò in silenzio, al semibuio.
Poi venne il sonno.
9.
Il resto è noto solo all’osservatore. Il protagonista infatti visse quanto segue in stato di incoscienza, almeno si presume.
La materia che misteriosamente secerneva tramite i pori si era ulteriormente ispessita. Lui aveva deciso di non dare peso al fenomeno e, evidentemente, aveva avuto successo in questa sua risoluzione. Si era rilassato e infine addormentato senza più pensare alla cosa. Questo rientrava nel suo carattere: aveva affrontato la situazione, aveva informato il suo medico, di cui aveva piena fiducia, e adesso attendeva serenamente che la cosa trovasse la sua risoluzione. Avrebbe adottato i rimedi che fossero stati necessari. Adesso voleva solo riposarsi.
Scusa se divago nuovamente: spero che il personaggio del medico non ti abbia incuriosito né che tu ti sia affezionato a lui, perché, con quest’ultimo riferimento, esce dalla nostra storia e non ne sentirai più parlare.
Ma magari, se mi dovesse servire, lo inserirò nel prossimo romanzo. Magari potrebbe raccontare distrattamente questa sua esperienza per ammaliare una giovane signora.
Dopo che il sonno lo prese il fenomeno ebbe un notevole sviluppo. La fibra iniziò a prodursi con maggior celerità assumendo una struttura più definita, quasi un canapo di materiale grigio. Adesso veniva prodotta non soltanto sui polpastrelli. La maggior concentrazione sembrava essere nella zona lombare: la maglietta bianca, lievemente sollevata, scopriva infatti una zona nuda di pelle sulla quale i fili, leggeri ma spessi, una tessitura grossolana si sarebbe potuto dire, spuntavano numerosi e crescevano. Se Milo Vukitch si fosse risvegliato non sarebbe riuscito a mantenere il consueto aplomb.
Il materiale cresceva adesso molto velocemente, i fili si allungavano e si intrecciavano come guidati, formando trecce, serrandosi saldamente. Anche da sopra il colletto, lunghe collane di filo intrecciato scendevano.
Il fenomeno trovò ulteriore accelerazione nel momento in cui i fili provenienti dai lombi incontrarono quelli che venivano dall’alto. Come dotati di volontà i fili iniziarono a annodarsi tra loro. Contemporaneamente anche dalle caviglie e dalla parte anteriore del corpo, nascosta contro la spalliera del divano, le formazioni spuntarono, fondendosi con quelle già presenti. Ogni intreccio aggiungeva solidità alla struttura che, giunti a questo livello, assumeva una certa rigidità.
Poi, inaspettatamente, come se dall’interno qualcosa stesse versando un liquido sulle fibre, l’enorme bozzolo che si andava formando iniziò a trasudare. La nuova sostanza aveva una viscosità simile a quella dell’olio pur essendo totalmente incolore. Nel contatto con il divano dimostrò un blando potere corrosivo. Attaccava infatti il tessuto scolorandolo. La stoffa però restava intatta.
Infine questo fenomeno cessò. E, di conseguenza, anche la produzione delle fibre rallentò e, infine, si interruppe.
Milo Vukitch era completamente scomparso alla vista. Al suo posto un ammasso grigio di stoffa grossolana, shanton di seta avrebbe detto chiunque lo avesse visto, occupava l’intero divano. Alcune fibre si erano allungate anche su di esso, come ad ancorarlo saldamente per evitare che potesse cadere.
Il bozzolo aveva la consistenza di un buon numero di sacchi di yuta sovrapposti e la stessa resistenza alla palpazione. Ma dopo essere stato imbibito dallo strano olio, sembrava destinato a indurirsi. In alcuni punti si era già irrigidito e l’olio stesso sembrava sigillare le fessure fra un filo e l’altro.
Nessun movimento giungeva dall’interno. Né alcun rumore.
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1687
Mostrando che dei fenomeni in apparenza molto diversi come la caduta libera di un corpo e il movimento della Luna non sono che degli aspetti diversi di un principio unico, la gravità, Newton, con la sua teoria della gravitazione pubblicata nel 1687, fa nascere la speranza d’una spiegazione completa dell’Universo
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Ulteriore breve divagazione sul tarlo
L’esistenza stessa di un tarlo (non l’animaletto, il dubbio) è prova di esistenza in vita.
Il tarlo stesso invece, di per sua natura, è destinato a vita da perseguitato. Quando viene identificato inizia la caccia. E, spesso con metodi cruenti, esso viene debellato, ucciso, scacciato dal suo habitat. Con estrema determinazione li cacciamo e, usando varie sostanze per loro fatali, liberiamo i nostri mobili.
E questo è un bene perché è importante preservare i mobili. Ma non si capisce perché per preservarli si debbano eliminare i tarli. Probabilmente si potrebbero trovare metodi meno distruttivi. E il tarlo magari ha un musetto simpatico.
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10.
La signora Serena Ullmann impiegò diversi minuti a riprendersi dallo shock. Come ogni mercoledì, puntualissima, alle otto e quarantacinque minuti aveva fatto il suo ingresso nell’appartamento del signor Vukitch. Stranamente aveva avvertito uno strano odore, pungente. Stranamente perché il signor Milo era persona ordinata e attenta. In effetti lei amava far le pulizie in casa di quel giovane tanto per bene. Un po’ noioso, forse, ma educatissimo. E pulito. “Sapesse, – amava ripetere alla vicina – non mi è mai capitato di trovare biancheria in disordine.” La cosa potrebbe sembrare pleonastica a chi non conoscesse il marito della signora Ullmann. Comunque, incuriosita dall’odore aveva vagato per le stanze alla ricerca dell’origine. Giunta nel salotto non le occorse molto per notare il grande ammasso lasciato sul divano. Inveendo mentalmente contro l’ordinatissimo datore di lavoro fece per sollevarne un lembo, giusto per capire di cosa si trattasse. Era un affare rigido, scuro. Ed era indubitabile che l’odore, adesso che era vicina poteva tranquillamente definirla puzza, provenisse da quella “cosa”. Poi, dall’interno, improvviso un movimento.
Subito dopo svenne, non senza prima aver lanciato un provvidenziale urlo che, nel volgere di pochissimi minuti avrebbe fatto accorrere i vicini in soccorso.
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Oggi
La cosmologia moderna si appoggia sul principio d’omogeneità dell’universo, il principio cosmologico, formulato da Milne.
Dire che l’universo è omogeneo vuol dire che nessuna delle sue parti è eccezionale.
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11.
Sì. C’era qualcosa che si muoveva, lentamente, all’interno del bozzolo. Dopo una breve osservazione tutti i convenuti nel salotto furono concordi nel dirlo. Ma che cosa? Che cos’era saltato in mente al signor Vukitch di portare quella roba lì in un palazzo rispettabile come quello? E come aveva fatto senza che nessuno lo notasse? Sicuramente aveva dovuto trasportarlo nottetempo, con enorme cura perché appariva fragile ancorché rigido.
E infine, dov’era finito il signor Vukitch: in ufficio non lo avevano visto e sembravano onestamente preoccupati. In tanti anni non era mai capitato, né per una malattia improvvisa, né per un impegno inderogabile che avesse dimenticato di avvertire della sua eventuale assenza. E poi, il giorno prima, doveva aver avuto un malore, perché si era recato dal medico.
In ogni caso nessuno dei presenti poteva sopportare l’idea che quella “cosa” restasse all’interno del palazzo. Poteva essere pericolosa.
La signora Ullmann, interpellata in proposito, si disse d’accordo. Qualcuno doveva portarla via di lì. Sfortunatamente non si riuscì a trovare nessuno disposto a farlo.
Il signor Bearle ebbe l’illuminazione: “esistono numerose ditte di traslochi in città, - affermò – e le spese le sosterrà il signor Vukitch. Che non doveva permettersi di portare quella cosa lì in un palazzo come questo. Senza neanche chiedere il permesso all’amministratore, poi.”
Per inciso l’amministratore era il cognato del signor Bearle. E l’agenzia di traslochi cui stava pensando era di un nipote. Ma questo importa poco per la nostra storia.
Più ragionevolmente altri suggerirono di attendere almeno l’ora del pranzo: il signor Vukitch sarebbe rientrato certamente e la cosa si sarebbe sistemata senza bisogno di essere troppo aggressivi. Al limite avrebbero potuto scrivere una lettera di biasimo da indirizzare all’amministratore contro questa cosa sconveniente che era avvenuta.
“In ogni caso io, le pulizie, con quella cosa in salotto, non ho intenzione di farle.”
“Ma ci mancherebbe altro. La capisco signora. E sono certa che il padrone di casa capirà perfettamente. Credo anzi che le debba delle scuse.” Disse una vecchietta che nessuno ricordava di aver mai visto e che, più tardi si scoprì, era la vicina di pianerottolo del signor Vukitch. Così dicendo prese sottobraccio la corpulenta domestica e la condusse quasi amorevolmente nel suo appartamento dove le offrì una tisana d’erbe che dicono faccia meraviglie per i nervi scossi.
Tutti gli altri abbandonarono l’appartamento, un po’ storditi per gli avvenimenti accaduti, un po’ delusi per non essere riusciti a determinare la natura del grande oggetto sul divano.
Al portiere vennero impartite istruzioni precise: doveva avvertirli tutti quando il signor Vukitch fosse rientrato e non permettergli di andarsene senza prima aver dato esaurienti spiegazioni.
Nell’appartamento, tornata la tranquillità, un uomo attento avrebbe senza dubbio avuto sentore dei sinistri scricchiolii che, a momenti, spezzavano il silenzio. Questo ipotetico uomo avrebbe facilmente potuto individuare nel bozzolo la sorgente degli scricchiolii.
Ma l’appartamento era vuoto.
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Un po’ di schizofrenia gratuita e assolutamente fuori testo e luogo
Adesso facciamo un po’ di fantapolitica: se dei modelli evidenziassero che un tizio, un signor nessuno, fra quattro anni riuscirà a mettere insieme le tante anime della ribellione sociale e ad organizzare un movimento che rovescerà l’attuale status quo. E ammettiamo che a noi questo status quo qua stia bene. Ammettiamo che i modelli siano in grado di identificare i punti nodali dello sviluppo di quel tizio, gli eventi che determineranno il suo divenire leader. Ammettiamo infine di avere le risorse e le capacità di sabotare il normale svolgimento di uno di questi avvenimenti nodali in modo incruento. Lo faremmo?
Si può ipotizzare, no?
Allora si può fare.
Magari qualcuno lo sta facendo.
Adesso arriva il difficile: se decidi di crederci dovrai far fatica. Difficile sarà riuscire a pensare in modo diverso. Non si tratta di comportarsi in modo opposto o differente da come ti verrebbe naturale. Si tratta di trovare un modo alternativo di pensare, di porsi davanti a qualsiasi problema con un approccio diverso. Cambiare punto di vista e scegliere una via logica. Non dovrai cambiare le vie, dovrai cambiare le partenze. Se deciderai di farlo, in principio non ci riuscirai. Poi inizierai a farlo in modo sbagliato. In pochi mesi ti verrà naturale. Focalizza l’obiettivo, scegli un versante inusuale da cui iniziare la scalata. Ricordati che tutto quello che ti hanno insegnato non vale. Sei stato condizionato a fare alcune scelte, quasi mai vantaggiose. Qui sta il segreto. Fatti questi passi tutto viene facile. La cosa buffa è l’autocoscienza. Non avrai bisogno di conferme. In quel momento lo saprai. Io cominciai ripetendomi, ogni volta, che la mia prima idea era sbagliata. E’ stato un primo passo. A forza di cercarle, le soluzioni alternative sono diventate la regola. Mi sono abituato, forse dovrei dire riabituato, dato che sono convinto che questo è il modo di pensare dei bambini, a farlo naturalmente. L’esperienza è il peggior nemico. Le cose cui sei più abituato saranno le più dure da evitare. Quelli che, sei convinto, sono i tuoi piccoli anticonformismi, le tue peculiari diversità, saranno gli ostacoli più duri.
Cambia le abitudini: hai sempre bevuto il caffè amaro? Smetti. Niente più caffè.
Scrivi la notte? Datti orari diurni precisi.
O diventa fotografo.
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Metaforizzando quello che era avvenuto prima
Quando il terreno fu libero dalle macerie, quando anche gli ultimi detriti furono sgomberati e il piazzale fu finalmente vuoto, Milo Vukitch avvertì un senso di rinnovata pulizia, quasi il lavoro compiuto avesse sterilizzato tutto.
C’erano voluti mesi per fare piazza pulita.
Ma ora il sole inondava il resto della strada, passando nel ritrovato spazio vuoto. Incredibile come l’assenza di ogni infrastruttura sia a volte più confortante della presenza incombente. Adesso tutto era nuovo, tutto era da rifare. Impressionato dalla grandezza del vuoto che gli si trovava davanti, si ritrovò, scioccamente, con una ramazza in mano. Era una di quelle ramazze in saggina, almeno così l’osservatore immagina, con un lungo bastone. Si mise a spazzare il piazzale lentamente.
Mentre lo faceva (e non c’era alcun motivo di farlo), riempiva con la mente quello spazio di nuove strutture pulite, solide. Immaginò dapprima la casa centrale: il tetto, leggermente più inclinato rispetto a quelli che sorgevano nella zona, gli conferiva un aspetto strampalato. Proprio al centro si apriva una terrazza a tasca di dimensioni sufficienti a contenere un tavolo e due sedie. Si affacciava verso il sole del mattino. Ideale per la colazione. Un muretto basso cingeva la proprietà. Abbastanza basso da permettere che dalla strada si vedesse dentro, ma non da poter essere scavalcato facilmente. Una siepe di pitosforo… no, di forsithya, faceva da sfondo al grande giardino. Sulla parete di destra, confinante con il palazzo alto, stava un barbecue in muratura.
Mentre il mucchietto di polvere e sassi che andava accumulando con la ramazza si faceva sempre più consistente si rese conto che, in quel modo, non gli sarebbe piaciuta.
Allora immaginò una casa più bassa e lunga, dalle pareti bianchissime e iperfinestrata. Le porte a vetri che davano sull’esterno erano scorrevoli, all’americana. Il prato tagliato molto più basso era verdissimo. La siepe era ancora di forsithya. E c’era ancora il barbecue.
La terza casa era decisamente più rustica. La facciata, a pietra, le conferiva l’aspetto tipico dei rustici contadini. Strideva un po’ in quel rione. L’effetto era leggermente mitigato dalle finestre a specchio. Tutto attorno alla casa, per una larghezza di un paio di metri, correva un marciapiede lastricato a betonelle. Sul prato spiccavano alcune aiuole fiorite. La macchia gialla della siepe (forsithya, ovviamente) divideva la parte del giardino occupata dal gazebo da quella libera, adatta ai giochi dei bambini.
Il mucchietto era diventato un mucchio vero e proprio.
Un bambino lo osservava divertito. E in quel momento realizzò che si stava comportando in modo decisamente stupido: che ne faceva, ora, del mucchio?
Lo abbandonò lì, la ramazza buttata per terra, e si diresse al bar di fronte. Dal bar, bevendo un caffè al rum, osservò con attenzione tutta la proprietà. Certo era grande. Non sarebbe stato facile riempirla di nuovo. Ma era eccitante.
Il mucchio intanto restava inerte, là nel mezzo del piazzale. Si mostrava, impudente. Lo disturbava un po’.
Tornò indietro, prese la ramazza e lo sparpagliò di nuovo in giro.
Il bambino rideva, decisamente stavolta.
Così si ritrovò a ridere anche lui.
Senza sapere il perché si sentì felice. L’aria era tersa, il sole caldo nonostante il novembre inoltrato.
In fondo quei detriti che aveva sparpagliato erano veramente le ultime vestigia di ciò che quel posto era stato. E non c’era motivo di riassemblarle. Così, invece, gli sembrava quasi di aver concimato un terreno, di aver sparso, come un humus, l’eredità del passato. Sopra quelle macerie sarebbe nato il futuro. E avrebbe affondato radici in un terreno buono.
Quale sarebbe stato, quale forma avrebbe preso, era ancora tutto da vedere.
E in quel momento si accorse che era proprio quello che lo faceva tanto eccitante.
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12.
Una crepa si aprì nel bozzolo. Nessun avvertimento, salvo i rumori che da qualche tempo si avvertivano. La crepa originò un suono più deciso e forte. Era lunga una decina di centimetri e larga non più della punta di un indice. Dall’interno adesso giungeva un raspare lento, metodico. Se se ne fosse potuta esaminare la sezione, in seguito la polizia lo avrebbe fatto, ci si sarebbe accorti che il bozzolo era costituito da diversi livelli soprammessi di una fibra simile alla canapa, induriti e saldati assieme, come se fossero stati immersi in colla o gesso. Fregandone un pezzo tra le dita si sfaldava lentamente, senza lasciare alcun polveroso residuo. Ad avere tutte queste informazioni, e a trovarsi lì in quel preciso momento, sarebbe risultato chiaro che qualcosa, metodicamente e con estrema calma, stava cercando di uscire dal bozzolo.
Ma non c’era nessuno.
La crepa non si allargò per diversi minuti, in compenso se ne formò un’altra, più in basso.
Adesso, noi sappiamo che dentro il bozzolo si trovava Milo Vukitch e possiamo quindi dire tranquillamente che la seconda crepa si aprì all’altezza del ginocchio, probabilmente proprio in seguito a un colpo, forse casuale, vibrato con quella parte del corpo.
Infine, con un colpo più deciso, in basso spuntò un piede nudo.
Per fatalità fu proprio quello il momento in cui la signora Ullmann si trovò a rientrare nell’appartamento per vedere se per caso il suo datore di lavoro fosse rientrato.
Immediatamente, alla vista del piede, svenne, stavolta senza riuscire a lanciare il collaudato grido. Così restò lì, supina, sul pavimento accanto al bozzolo, mentre pezzi di quello strano materiale le piovevano addosso.
Alcuni erano sottili come fogli di carta e svolazzavano prima di posarlesi addosso. Altri, più consistenti cadevano a colpirla senza riguardo. Nonostante questo la domestica restò rigida come un baccalà, stesa sul pavimento.
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13.
Milo Vukitch salì le scale facendo scorrere i polpastrelli della mano destra lungo il corrimano, raggiunse il tetto e osservò la città grigia sotto di lui, si avvicinò al parapetto e lo superò mettendosi dritto sul cornicione, lo sguardo fisso in avanti verso il cielo più blu che avesse mai ammirato, mentre i polmoni si riempivano e svuotavano in piena sintonia con i battiti del suo cuore e, senza bisogno di provarsi, senza avvertire la necessità di un piccolo saggio delle possibilità di tutto quel meraviglioso arazzo colorato che stava sulle sue spalle, si alzò in volo, sbattendo quelle nuove ali di farfalla e, soltanto in quel momento, sorpreso, notò l’osservatore, me, e sorrise, che poi, dopo tutto questo, è evidente che dovrei dire di lei, anche se preferirei essere frainteso piuttosto che autobiografico (questo mi pare l’abbia già detto qualcuno), e dire di lei è buona parte di quello che vorrei fare ogni volta che prendo a scrivere, se non fosse che io non posso dire di lei mentre forse posso dire di me e di lei che filtra attraverso il cristallino, anche se il coinvolgimento fa scrivere brutta poesia e non esiste antidoto alla brutta poesia e comunque, dicevo, dovrei dire di lei, di come abbia smontato e rimontato il mondo, di come abbia rimesso in discussione tutto quello che ero convinto di essere, di come abbia ridotto la mia pretesa superiorità mentale (non verso di lei, verso voi/tutti), il cinico sano distacco nei confronti della vita, la certezza che l’amore fosse un abito da indossare e di cui convincersi, dire di lei, che poi sarebbe così facile, archiviarla in tanti piccoli cassetti, dire degli occhi, delle labbra, dei fianchi, dire del sorriso e dei capelli neri neri, dire di lei, dicevo, che poi questo non sarebbe dire di lei ma descriverla e allora mancherebbe qualcosa che poi è la cosa che è lei, dovrei dire di lei, come se questo potesse farvi capire, che poi, forse, potrebbe bastare dirlo: ti amo.
Poi Milo sbatté le ali e si stagliò contro il cielo azzurro.
Altro non so. O, per adesso, non ho voglia di dirvi.
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Informazioni finora in nostro possesso e postulati
Ricapitolando: una volta che il catalizzatore ha annullato l’opera dell’inibitore, la reazione ha luogo. I tempi e le velocità mutano a seconda della reazione. Alcune avvengono immediatamente, altre, come in questo caso, abbisognano di un periodo, una sorta di incubazione.
La reazione è irreversibile e il catalizzatore è l’unica cosa immutata che resta del processo. La sostanza che ha subito la mutazione invece ha cambiato, ad esempio nel caso dello stirolo, consistenza, aspetto. Ed è pronta ad assumere forme nuove o comunque viene destinata a diversi utilizzi.
In definitiva, la sostanza è stata mantenuta “sopita” tramite una continua somministrazione, quasi una terapia continuativa. Ma, venuta a contatto con un agente esterno, ha realizzato quella che, si può ben pensare, sia la sua vera natura.
Credo ci si possa vedere dentro un sacco di metafore.
Epilogo
Capire è semplice.
Dire è più complicato.
Se una cosa non è detta o scritta o resa pubblica, non esiste.
Come quell’albero nella foresta che cade.
L’albero.
Capire è precedente.
Precedente alla formalizzazione della parola.
E, soprattutto, all’accettazione.
Anche giovanissimo sai che morirai.
Ma solo dopo essertelo detto cominci a metabolizzarlo.
Il silenzio è veramente d’oro.
Così adesso l’ho detto.
Mischiato a mille parole, l’ho detto.
Adesso esisti.
E non posso tornare indietro.
Posso negarti.
Posso superarti.
Puoi farlo tu, se vuoi.
Ma hai sentito.
E adesso esisto.
Ti potrei amare, amica mia.
E, lo vedi, anche adesso mi difendo.
Nudo davvero, ma con la mia foglia di fico.
Dovrei avere il coraggio di dirti che ti potrei amare.
E basta.
E non chiamarti amore, tesoro, amica mia.
Neanche piccola o pucci, se è per questo.
Dovrei dirti che ti potrei amare chiamandoti per nome Lara
Dovrei farlo guardandoti negli occhi.
Abbassando le difese.
Che dovrebbe essere così.
L’istinto di conservazione è la cosa più animale che ho.
Che hanno tutti, mi si dice.
Mi vengono in mente anche altre cose animali che ho.
Dovrei superarle queste cose.
Tutto il mio orgoglio per il mio grano di sale.
Tutto lo studio e la fatica.
E alla fine, quando conta, sempre scimmia.
Ti potrei amare.
E poi tutta la litania di cose già sentite.
Mi manchi.
Ti voglio bene.
Mai così.
La prima volta.
Che anche vere sono banali.
Dovrei saper spogliare questo senso.
E dirti che ti posso amare.
Hic et nunc.
Senza bisogno di schermi e senza paura per te e per me.
***
Cosa resta di tutto questo
Il cognato amministratore del signor Bearle con un problemino da risolvere.
Il nipote traslocatore del signor Bearle molto deluso per il mancato guadagno.
Un ufficio senza il suo miglior impiegato.
Un discreto numero di scaglie di bozzolo scuro. La cui natura resterà ignota nonostante le numerose analisi che verrano effettuate.
Una domestica sovrappeso stesa sotto le scaglie di cui sopra.
Un divano scolorito ma in perfetto stato.
Un terreno edificabile su cui, prima o poi, verrà costruita una casa. L’aspetto della casa è ancora tutto da decidere. L’unica cosa certa è la presenza di una siepe di forsithya.
Un uomo con le ali variopinte e, da qualche parte, un catalizzatore che ha annullato la paziente opera di anni di somministrazione di inibitori.
Un autore inutilmente e paradossalmente paranoico.
***
Riparlandone con quella dello scheletro.
“Però così viene fuori che mi ami solo da scimmia. – mugolò un po’ infastidita – Io vorrei essere amata anche per intelletto.”
Adesso qui è scritto in italiano aulico ma il senso era quello.
“Quella, con te, era la parte più facile.”
E poi, per dire la verità, mi sembra di aver già parlato troppo a lungo.
Questo lo dico a te lettore, che lei, altrimenti, ci trova da ridire. E io ogni tanto, la notte, devo anche dormire.

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