venerdì 16 novembre 2012

Orfeo e Euridice sono una buona scusa


Il vecchio sulla sedia sembra parte del torrido paesaggio.
Dorme. L’ombra di un ulivo gli concede insufficiente frescura. E, infatti, spesso ha brevi risvegli, durante i quali cerca una miglior posizione d’appoggio sul tavolino di legno. Non porta cappello e la gran massa di capelli ne nasconde il volto. Solo saltuariamente, in uno dei costanti spostamenti, si riesce a intuire la linea del naso, dritta, e degli zigomi.
Sul tavolo, del formaggio, una forma da cui manca una robusta fetta, e un vaso di miele.
L’uliveto che circonda il vecchio appare sterminato, infinito. In lontananza il mare azzurro e il cielo, non ben demarcati dalla linea d’orizzonte, si confondono. Una nuvola, inutile e bianchissima, indugia lontana dal sole.
La totale assenza di vento rende il mare completamente immoto. Di un blu eccessivo. Troppo uniforme per poterlo osservare a lungo. La presenza di chiazze azzurrine porta a immaginare la presenza di fondali sabbiosi alternati al fondo scoglioso che, in questa zona, è predominante.
Il vecchio si muove ancora.
Potendone osservare il volto lo vedreste attraversato da una rete interminabile di rughe. E non dubitereste del fatto che l’uomo è vecchio. Molto vecchio. Il candore della peluria che ne copre il viso è assoluto. Non un filo di nero lo inquina. Sopracciglia, capelli, barba. Solo quest’ultima rivela quello che sembra un vezzo anomalo in un uomo che si potrebbe altrimenti definire rustico. Di fatto è molto curata, non troppo lunga e perfettamente ritoccata attorno alla bocca e sulle guance. Lavoro di forbice e rasoio. Frequente. Volendo speculare si potrebbe pensare che sia il frutto di costante lavoro mattutino. Forse una vecchia abitudine, troppo antica per morire.
Durante uno degli spostamenti il vecchio si stira inarcando la schiena. Le braccia, allungate con forza verso l’esterno, sono condotte prima indietro, poi nuovamente sul tavolo. Le mani cercano una buona posizione sotto il viso, una specie di cuscino tra lui e le tavole di legno. Durante quest’operazione numerosi schiocchi, di certo provenienti dalle articolazioni anchilosate dalla posizione, disturbano un silenzio per il momento assoluto.
Il tempo sembra aver lasciato tracce soltanto sul viso. La muscolatura è, infatti, portentosamente giovanile. E anche la pelle della schiena, nuda, appare molto più tonica di quella del viso. Anche le mani recano i segni del tempo. Mani usate, piene dei residui di lavoro, di vento e di mare, di terra e di miele.
E’ stato innumerevoli volte padre, il vecchio, e innumerevoli volte nonno. Il suo aspetto, a dispetto del tempo, è sempre bello. Ogni ruga appare come aggiunta ad arte.
Le voci dei ragazzini si rincorrono fra gli ulivi. Quattro bambini sui dieci anni. Corrono sicuri tra le zolle mosse. Il campo nuovo, ancora incolto, ancora brullo, con la terra movimentata da poco, offre ogni genere di difficoltà che ragazzi di quell’età possono desiderare per i propri giochi. L’anno prossimo anche quel campo sarà utilizzato, coltivato, inutilizzabile per la corsa. Quel genere di corsa almeno. Ma anche i ragazzi avranno un anno in più e meno voglia di scorticarsi le ginocchia. Ogni tanto uno dei quattro cade tra i lazzi degli altri. Per poi rialzarsi e tornare a correre. Un’occhiata veloce ai danni riportati dai vestiti, perché la prima preoccupazione è quella derivante dalle reprimende materne al rientro a casa, e dalle gambe. Poi nuovamente a correre e saltare.
Il vecchio, durante uno dei frequenti risvegli, li vede e sorride. Poi si riaddormenta.
La corsa, sfrenata, termina presso un ulivo più grande degli altri, di forma strana. Sembra una grande mano che punta il cielo con l’indice.
“Primo.” Grida un ragazzino, toccando l’albero. Poi crollano a terra tutti assieme.
Sono sporchi, sudati, felici come solo a dieci anni, con i polmoni che scoppiano, si riesce a essere. Senza motivo, senza spiegazioni.
Poi restano solo i respiri a riempire il silenzio fra gli ulivi. E il rumore lontano di una risacca incompatibile con quel mare troppo blu e troppo fermo.
“Che si fa, adesso?” respira fuori il vincitore.
“Al mare. A fare il bagno.”
“Al castello.”
“Svegliamo il nonno.”
Le tre voci si sono levate assieme. Ma è la terza che la spunta. L’opzione preferibile prevede però una mistica d’approccio cui non si può derogare. Il ragazzino più alto, dimostrando una sorta di supremazia già sospettabile nel momento in cui aveva vinto la gara, inizia a dare disposizioni:
“Marco, tu vai a prendere il vino e le pesche. E lo zucchero.”
Il ragazzino più basso si volta e riprende a correre verso il crinale della collina. E poi oltre, verso la casa.
I tre lo seguono con lo sguardo fin dove questo è possibile. Poi sperdono gli occhi nel cielo a cercare interpretazioni nuove alle forme di quell’unica altrimenti inutile nuvola. Non ci sono parole da dire. Si aspetta. E si respira. Quasi fosse l’operazione più difficile del mondo. Si gode della sensazione dell’aria che riempie i polmoni. E, svuotandoli, se ne avverte addirittura il sapore.
Marco è un buon corridore: pochi minuti dopo è di ritorno con quanto richiesto.
Adesso la scena si fa solenne. I quattro si avvicinano al tavolo, silenziosi. Appoggiano il fagotto delle pesche e il fiasco di bianco. Sul vetro le goccioline di condensa illustrano efficacemente la temperatura interna.
Hanno una venerazione antica per il vecchio. Lui li colma di attenzioni. E racconta loro le storie. Storie più interessanti di quelle che sentono in casa. Nelle storie ci sono donne e particolari piccanti che smuovono ormoni imberbi. E avventura. 
Lui sa perché vengono da lui. Ed è felice di vederli. Sono il suo miglior raccolto. E lui ne ha visti di raccolti. E’ sveglio da diversi minuti e, nascosto sotto i capelli, li ha osservati. Ma non voleva sciupare quella forma di silenzioso accordarsi, quell’essere complici che i quattro ragazzini riescono così naturalmente a instaurare. Adesso, dopo che loro hanno terminato i preparativi, emette un paio di mugolii, stira nuovamente le braccia, simula uno sbadiglio. Rialza la testa sorridente.
“Grazie bambini. Grazie. A cosa devo tutte queste attenzioni?” Nel dirlo afferra una pesca, la sbuccia, la taglia a pezzi e la mette in un bicchiere. La copre con lo zucchero e la affoga nel vino fresco. Mentre attende che la polpa si riempia per bene pulisce le altre pesche e le porge ai bambini. La rapidità con cui compie questa operazione fa immaginare che sia qualcosa di consueto, di usuale. E’ così. Ma per i ragazzi osservare quei movimenti rotondi, fluidi ha ancora qualcosa di magico. Tutto è magico nel vecchio. Tutto è magico nei nonni, in fondo.
“Vorremmo una storia, nonno Aristeo.” quasi supplica Marco.
E’ il più piccolo. Non per età ma per dimensioni. E’ sempre stato piccolo. E’ il preferito. E gli altri, sapendolo, lasciano che sia lui a fare le richieste.
“Ah, una storia. – dice il vecchio – E ne avete in mente una in particolare?”
“Quella del tuo fratellastro e di quella donna che amavi”. Dice nuovamente Marco.
Il silenzio torna sovrano tra gli ulivi. Il vecchio si infila in bocca un pezzo di pesca grondante vino mentre il suo cuore sente di nuovo la stretta che il ricordo di Euridice, ogni volta, gli concede.

“Vostro nonno è vecchio. Molto vecchio. Molto più vecchio di quanto un uomo dovrebbe diventare.
Sono nato mille e mille e mille anni fa. Figlio di un Dio, ebbi in dono la capacità di allevare le api e di coltivare la terra. Ebbi il dono della bellezza e quello di una lunghissima vita.
Nacqui nel tempo in cui si vivevano le leggende.
A quei tempi le donne erano di rara bellezza. E io ne ero circondato dovunque andassi. La più bella di tutte le donne si chiamava Euridice. E io la amavo. Avevo avuto molte donne. Ignorando cosa fosse l’amore avevo colto da loro la passione, il piacere e niente altro. Aristeo il donnaiolo. Aristeo senza cuore, dicevano. Aristeo cattivo.”
Lo zucchero e il vino, dopo il sollievo iniziale, lo stanno facendo sudare. Si terge la fronte con il dorso della mano, si versa un nuovo bicchiere di vino e, così facendo, dissimula una lacrima.
“La sua bellezza mi stordiva. Il suo profumo annebbiava i miei sensi. Ogni tanto, quando la veste scopriva le sue gambe e vedevo la sua pelle bianca, credevo di svenire. Anche lei, colpita dalla mia bellezza, provava, lo so, le stesse cose per me. Ci incontravamo sempre nei campi, tra gli alberi del pane. Parlavamo a lungo. Fu in un giorno di maggio che le confessai il mio amore. Lessi nei suoi occhi stupore e rammarico. Non parlò. Si limito a mostrarmi il suo sorriso triste. E si allontanò. Senza voltarsi indietro. Il suo odore mi raggiungeva, sempre più tenue. Capii che non potevo rinunciare a lei. Le corsi dietro e le chiesi il perché.”
“Tu lo conoscevi già il tuo fratellastro, vero?”
“No. Era stato molti anni in viaggio. Sapevo di lui quello che tutti sapevano. Era un grande poeta. Aveva ricevuto questo dono dalla madre. Era il più grande poeta che il mondo avesse mai conosciuto. Era tornato da pochi mesi e non ci eravamo mai incontrati. Ma lui aveva incontrato Euridice. E si era innamorato di lei. Come dargli torto? Non era possibile non cadere prigioniero della sua bellezza, del suo candore. Lui aveva composto per lei i versi più belli che avesse mai composto. Le aveva detto le parole più dolci e belle che le fossero mai state dette. Lei era caduta nella sua rete. E aveva cominciato ad amarlo più di quanto avesse mai amato nessuno. Accecato dalla gelosia e dall’invidia odiai mio fratello. Ero giovane allora. E non capivo tante cose. Ma riuscivo a pensare soltanto al viso di lei, al suo corpo, alla linea dei seni e dei fianchi. Alla bocca e alla levigatezza del collo. La morbidezza delle mani. Il profumo, soprattutto. Il profumo della sua pelle. Mi svegliavo di notte, sudato e sconvolto, turbato dai sogni in cui la possedevo. Euridice.
Fuoco nelle mie vene, nei miei lombi, veleno nel sangue e nella testa, miele sulle labbra e aceto sulle ferite. Euridice. Donna oltre le donne, desiderio e fisicità. Euridice.”
Stavolta il movimento della mano non è sufficientemente veloce e la lacrima, splendente sul viso abbronzato, è visibile, per un momento. L’eccitazione che il racconto produce nei bambini li porta, dolce crudeltà di quegli anni, a ignorare il dolore che quella lacrima dimostra.
“Che successe dopo?”
“Orfeo la chiese in sposa e lei accettò. Sapevo che lei era in suo potere. Nessuno poteva sfuggire alla poesia di Orfeo. Era un canto unico. Irripetibile. Io stesso ne avvertivo il fascino e la bellezza. E questo me lo faceva odiare ancora di più. Lei mi avrebbe amato se lui non avesse fatto ritorno. Io non potevo rinunciare a lei. Io la amavo di più. La avrei potuta amare di più. Se il dono della poesia fosse stato mio io l’avrei salvata.”
Si ferma mentre nella sua mente si compongono i mille disegni di quello che avrebbe potuto essere. Quante volte ha sognato che tutto si fosse svolto in un modo diverso. Quasi tante quante quelle in cui lei lo visita ancora in sogno. Gli occhi dei bambini sono piantati nei suoi.
“Venne deciso il giorno delle nozze. Passai quei giorni in uno stordimento totale. Ogni giorno che passava era un dolore in più. Un attimo in meno verso il momento in cui l’avrei persa per sempre. Poi il giorno venne. Preso dalla follia la cercai per le strade e nei campi. La incontrai fra gli alberi del pane. Fu sufficiente guardarla per capire che anche lei mi voleva. Neanche le parole di Orfeo erano sufficienti a spegnere la passione che ci spingeva l’uno verso l’altra. Ma lei, vincolata dalla promessa fatta a mio fratello, mi si negò. Cercai di spiegarle che faceva un errore irreparabile. Che non poteva farlo. Lei cercò di convincermi che mi sbagliavo. Era nobile Euridice. Non voleva mancare alla parola data. Dentro di me sentivo nascere una rabbia infinita. Mentiva a me. Mentiva a se stessa. La afferrai per un braccio e, mentre lei si divincolava, la veste si stracciò. La vista della sua pelle nuda mi fece vacillare. Lei spaventata si ritrasse e prese ad allontanarsi. Io la seguii e ci addentrammo fra i cespugli bassi fuori dalla strada. Correvamo. Poi, improvvisa come solo la morte sa essere, una serpe la morsicò. La vidi cadere a terra senza un lamento. Ero a pochi passi da lei quando cadde. Ma quando la raggiunsi riuscii a raccogliere solo il suo ultimo fiato. Lo racchiusi in un bacio.”
Viene raggiunto dal ricordo di quel bacio. Di quell’unico bacio. Lo sente scivolare sulle labbra. Sente le labbra di lei, immobili sulle sue.
“Una contadina che andava al campo, passando di lì, vide la scena. E tutti credettero che fosse morta per causa mia. Per colpa mia. Ma non capivano. Io l’amavo. Come potevo essere stato la causa della sua morte? Ormai niente mi interessava più. Non avevo intenzione di giustificare il mio amore. Così accettai la mia punizione. E il mio esilio.”
“E cosa successe dopo?” Marco conosce la storia a memoria. Adesso arriva la parte che gli piace di più.
“Dopo Orfeo cercò di sottrarla alla morte. Ma non la amava abbastanza. Io invece partii. Raggiunsi questa terra e insegnai agli uomini a coltivare gli ulivi e a fare il miele e il formaggio. – dicendolo preparò quattro fette di formaggio che distribuì ai bambini – Conobbi altre donne. Ebbi figli. E nipoti. E, per ultimi, voi quattro.”
“Euridice…” Marco ha, come sempre, fame di nuovi particolari. Ma lui non ha voglia, oggi, di parlarne ancora.
“Euridice è morta.”
Torna il silenzio tra gli ulivi. Le croste mangiucchiate del formaggio vengono abbandonate sul tavolo.
“E ora andate al mare. O a giocare da qualche parte. Io sono stanco. Devo dormire.”
I bambini si allontanano. A metà tra l’eccitato e il deluso. Marco sogna già da qualche mese una donna che lui è convinto sia Euridice. Ha deciso di diventare poeta. Così, se la incontrerà, non ci sarà un Orfeo che la possa portare via.





2. Ade a Volterra         
57 anni prima
La quarta mattonella a destra a partire dall’alto, lungo l’angolo della porta, è spezzata. A seguire la linea della frattura si è portati a pensare che qualcuno abbia, scientemente, tracciato il profilo di una donna. Osservando meglio si capisce che la donna è bellissima.
Il sifone del bagno impiega trecentosedici secondi a riempirsi, la veneziana che copre l’unica finestra è composta di centododici lamelle verdi, sulle pareti, sopra il limite demarcato dalle mattonelle azzurro pallido, graffiti numerici ricordano il tempo in cui ancora cercava di quantificare i giorni. Fuori piove, almeno questa è l’impressione. Da cosa la ricavi è, per l’occupante della stanza, un mistero. Le veneziane sono chiuse.
Ventinove denti nella sua bocca, quattro travi sostengono il soffitto, trentasette sciupature sulla porta bianca. Una sembra un gatto. Due le stelle che riesce a vedere, la notte, quando apre le veneziane. Cinquecentotredici i quaderni già trascritti. Stasera inizierà quello nuovo.
Almeno tre ore trascorse dal pranzo.
La porta si apre e un uomo (lo stesso di ieri?) entra nella stanza. Lui lo saluta con un cenno del capo perdendo, irrimediabilmente, il conto dei capelli.
L’uomo appena entrato, vestito di bianco, lo invita a seguirlo con la solita formula: “E’ l’ora…”
Ecco. Questo sarebbe interessante: sapere che ora sia.
Comunque lo segue. Viene accompagnato nella sala grande. Come sempre ci sono molte persone ad attenderlo (le stesse di ieri?). Sono sedute in cerchio.
L’uomo in piedi vicino alla finestra lo invita a prendere il suo posto: la sedia bianca. L’unica del cerchio.
Ha sempre amato questo piccolo segno di deferenza, non richiesto, che, da quando si trova in quel luogo, gli viene tributato. Si siede in mezzo a quello strano consesso. Come ogni giorno non si cura di studiare i volti di coloro che lo circondano. Sa che sono dodici compreso quello in piedi vicino alla finestra.
Gli altri iniziano a parlare delle loro stupide faccende (lo fanno sempre?) infervorandosi per le piccole cose. Stenta a contenere lo sdegno per quelle futilità. Poi si forza a ricordare che sono solo umani. E accetta. Finché l’uomo in piedi si decide a compiere il rito:
“E’ pronto a raccontarci qualcosa, oggi?”
“Oggi sì.”
“Benissimo signor Ade…”
“Ade è sufficiente, uomo.”
La stanza sbianca in silenzio. Anche l’uomo in piedi prende posto su una sedia, come è giusto.
Lui attende qualche secondo prima di parlare. Il silenzio sottolinea la solennità.

“Oggi vi narrerò la storia di una donna, come voi mortale (ah, quanto mortale era), così bella da usurpare il nome della mia signora. Euridice la chiamarono. Ella suscitava l’amore negli uomini. E, ahimé, negli Dei.”
Il ricordo doloroso gli riporta in gola un singhiozzo. Lo reprime. Ha in odio il mostrarsi davanti a quella schiatta.
“Seppi che l’avrei desiderata nel momento del suo concepimento. Ma per tema che la mia signora potesse accorgersi di questa mia insostenibile debolezza, quando ella fu cresciuta, la spinsi tra le braccia di Orfeo. Il suo amore per lei (e il mio?) era così grande che, pensavo, la avrebbe condotta via da me. Se la mia signora avesse capito la vera natura del mio interesse la avrebbe, certo, condannata a un fato mille volte peggiore della morte.
Ma il destino è beffardo con gli uomini e con gli Dei. Ella mi venne riconsegnata da un altro uomo, innamorato di lei quanto Orfeo.
Si chiamava Aristeo.
Incapace di controllare il richiamo dell’amore animale, egli, presso gli alberi del pane, il giorno del suo matrimonio, tentò di far sua, dato che l’anima gli era negata, la carne.
Era pura Euridice. Lottò per sottrarsi alle voglie dell’uomo. Ma la forza di lui, che la carne rendeva cieco, non le permise di sottrarsi.
Non potevo permettere che Aristeo cogliesse il suo candore. Così, mentre le difese di lei, nuda, venivano meno, prima che lui potesse possederne il corpo, inviai una serpe a sottrarne lo spirito.
Lui ebbe solo la carne.
Lei, pura, arrivò nel mio regno”
Un uomo tenta di interromperlo. Per quanto tempo, si domanda, dovrà sopportare questa pena? Il suo peccato non è forse saldato? Non è, lui, il signore degli inferi?
Riprende il racconto. Non per loro, certo. E’ lui ad averne bisogno. Forse è proprio questa la sua condanna, la sua pena.
“Non potevo lasciarla nel regno dei morti. Non sopportavo che dovesse restare in quel luogo. Spinsi Orfeo a reclamarla. Ed egli lo fece. Era un grande poeta. E con le sue parole aprì la porta degli inferi e, per amore, giunse dinanzi a me e alla mia signora.
Cantò Orfeo. Cantò il suo amore. E ogni parola, ogni verso mi uccideva. Chiese di avere Euridice indietro, ancora viva. Il suo canto aprì brecce nel cuore della mia signora. Ella mi disse che avremmo dovuto acconsentire alle sue richieste.
Ero riuscito a sottrarre il mio amore al mio stesso regno.
Ma qualcosa, in quel momento, nel mio sguardo, mi tradì. La regina vide tutto. Vide che amavo Euridice da prima che nascesse. Vide quante trame avevo intessuto per preservarla. Vide quanto, oltre al suo nome, ella avesse usurpato.
“Potrai riaverla. – disse rivolta al poeta – Ma sappi che nessuno può guardare il volto degli spiriti finché vive. Potrai riaverla a patto di non guardarla fino a quando sarete fuori da questo regno. Quando sarà viva, di nuovo.”
“Ma, mia signora, - le dissi in un sussurro – non potrà.”
Il suo sguardo mi raccontò tutto. Mi disse del suo odio per Euridice, del suo disprezzo per Orfeo. Mi disse, soprattutto, del suo disprezzo per me.
Il resto è storia. Orfeo non l’amò abbastanza, lei perse la vita. Lui, dopo, perse la vita. Io persi il mio regno.
Qui sconto la pena.”
Il silenzio accoglie queste parole.
L’uomo in bianco (quello di ieri?) ripete la formula: “E’ l’ora…”
Poi aggiunge: “Ade, hai visite.”
Conosco la strada: quindici passi, poi a sinistra, altri trentaquattro passi. Poi la porta con quattro vetri. Oltre la porta la mia signora.
Mi racconta cose senza senso. Anche questo fa parte della pena. Mi dice di essere preoccupata per nostro figlio (figlio?). Dice che sta diventando un donnaiolo, senza cuore. Aristeo cattivo.

Dal fondo, riemergevo.
Non avevo mai notato le mille sfumature del buio: dal nero assoluto che genera dubbi di inesistenza al grigio impastato, indistinto e indistinguibile.
Nell’ombra appena scalfita di luce (Mattino? Giorno?) rividi i tuoi occhi dopo averli desiderati così a lungo.
La luce (Ancora? Ricordo la dominante rossastra. Alba? Tramonto?) tracciò il tuo profilo per un momento.
Poi caddi.
L’ombra non si impossessò di me in quell’attimo. Per un lento pugno di secondi continuai a trattenere quel tenue bagliore, il tuo contorno indistinto.
Non gli occhi. Quelli li avevo già persi. Troppo distanti.
Cercai di indovinare un movimento sulle tue labbra. Cercai di immaginarci il mio nome.
Ma fu subito buio.
Per sempre buio.

1 ora dopo
Ho sempre subito la fascinazione della platea vuota. Tutte le sere, dopo lo spettacolo, rimango seduta qui, in mezzo al palco, a guardarla. Ho sempre creduto che il velluto delle poltrone trattenga un po’ delle emozioni che l’occupante ha provato. E io cerco di recuperarle. Alcune sere ci riesco. Sono le serate migliori, quelle in cui mi ritrovo così carica che non basta un po’ di vino e tutte le parole del mondo. Le sere che diventano notti. E il più delle volte mattine. Quando finire in un letto, per dormire, sembra di aver bruciato un pezzo significativo di vita, di esistenza. Che non tornerà. Sere in cui l’urgenza di essere mi supera. Devo correre per tenerle dietro.
Stasera no. Stasera è tranquilla. C’è la cena. E c’è Oreste.
Ma resto comunque qui. A osservare la platea.
Che poi c’é l’odore del palco, perché il palco ha un odore. Anzi, ogni palco ha un odore. Il suo. Diverso da tutti gli altri. E poi le scene. Che, da questo particolare punto di vista, rappresentano alla perfezione quello che è il teatro. Vedo il retro delle quinte, davanti, con le cantinelle perfettamente piantate a sostegno. Ma se mi sdraio e sbircio le quinte dietro di me mi ritrovo proprio in un manicomio, nella stanza con la porta e la finestra con la veneziana. A metà tra realtà e finzione. E’ una specie di limbo. Durante lo spettacolo non ho mai il tempo né la testa per realizzarlo. Ma adesso c’è tutto il tempo del mondo.
Adoro il dopo. In tutte le cose che faccio. Adoro il dopo. Prima c’è sempre troppa tensione, troppa agitazione. Ma dopo, specialmente quando lo spettacolo è andato come si deve, inciampi sempre in questo momento. In cui vorresti che tutto iniziasse di nuovo e, contemporaneamente, sei troppo stanca per non sognare il tuo letto.
Non stasera. Dopo la prima si festeggia. Oreste ha prenotato all’Averno e devo sbrigarmi. Gli altri saranno già arrivati. Ma, stasera, non avevo proprio voglia di uscire dalla doccia. 
Fuori la temperatura è scesa di nuovo sotto lo zero. Soffio via un paio di nuvolette di condensa col naso e mi accendo una sigaretta sperando che il catrame mi scaldi i polmoni.
La mia stupida macchinetta bianca è rimasta solitaria nel parcheggio del teatro. Sola, là in mezzo, mi sembra ancora più brutta. Non ha niente dietro cui nascondersi. E’ una delle mie tante fisse. La piazzo sempre dietro la cosa più ingombrante che trovo. Così non mi dimentico dov’è: se c’è un camion, un autobus, in subordine un jeppone, la mia macchinina sta la dietro.
Poverina. In fondo mi trascina dovunque io voglia da più di sette anni. Oreste insiste sempre tanto perché la cambi. Ma io sono affezionata.
Forse proprio perché è brutta.
Come se volesse perorare la propria causa, si mette in moto alla prima. Il motore rilascia immediatamente un po’ di calore anche nell’abitacolo. E ringrazio ancora il signor “Ascoppio”. Da bambina ero convinta che fosse l’inventore. E da allora è il prototipo del tipo geniale.
Ingrano la marcia e parto dimenticando di farla scaldare. Come faccio ogni volta. Anche per questo ho un meccanico molto gentile.
Dieci minuti dopo sono all’Averno. Da fuori è uno spettacolo. Con tutte quelle vetrate e tutta la luce che piove fuori. Anche questo sembra riscaldare il mondo esterno. Quindi è con minor rammarico che abbandono l’abitacolo che, grazie alla ventola, ha raggiunto temperature libiche.
Invece le luci mi hanno fregata. Fa un freddo boia. Ma indugio comunque a guardare le vetrate del ristorante. Dietro la vetrata d’angolo c’è il nostro tavolo. Il tavolo intorno al quale io e Oreste ci siamo messi insieme. Dopo tre mesi di lavoro fianco a fianco ci vollero due bottiglie di vino per dargli la forza di chiedermelo. Come un ragazzino.
“Sei troppo bella. – mi disse – Ero convinto che non ne volessi sapere di me.”
Poi l’amore. Forte. Intenso. E, mi auguro, eterno. Finora è stato questo il punto debole delle mie storie. Ma forse è la volta buona. Siamo riusciti a sopravvivere ai soliti discorsi sull’attrice e il regista. E ai primi sei mesi. Altri due e comincerò a crederci davvero.
Che poi, forse, tutto il segreto sta qui: crederci. Se ripenso alla mia vita “sentimentale” riesco a ricordare dolori e liti. Tante piccole storie di nessuna importanza. La mia certezza che, comunque, fossero transitorie. Non aver mai creduto che potessero essere qualcosa di più. E, quindi, la progressiva cauterizzazione del nervo emozionale e un atteggiamento sempre più disincantato. Una spirale perversa a discendere. Fino ad adesso. Fino a Oreste.
Il freddo mi riporta davanti alle finestre dell’Averno.
Apro la porta ed entro. Come mi aspettavo, la compagnia ha invaso il tavolo di fondo, quello vicino alle vetrate che danno sul giardino interno.
Nessuno mi si fila minimamente. Sono tutti intenti a parlare dello spettacolo. C’è Marina che, com’era prevedibile, si è seduta accanto a Oreste e ha cominciato a fare la stupida. Ora che ci penso non ha cominciato: ha continuato.
“Eugenia.” finalmente qualcuno mi nota. E’ Arturo. Come sempre mi colma di attenzioni. Si alza, si procura una sedia cacciando qualcuno che non identifico e mi fa posto accanto a lui. 
“Sei stata fantastica stasera.”
“No. Tu sei stato fantastico.”
“Lo so. Per me è normale.”
Ridiamo da scemi, come facciamo sempre. Oreste mi vede e mi saluta con un sorriso. E Arturo si rabbuia. Sperava in qualcosa di più della complicità amicale, lo so.
Non che l’abbia mai detto. Ma è evidente. Ma io non voglio sentirmi in colpa per questo. Non stasera.
Molte bottiglie di vino sono già vuote nell’angolo del tavolo. Altre le hanno sostituite, temporaneamente. L’allegria è l’emozione dominante. Ma c’è qualcosa di più. In sala c’era Maghinardi. Ci aveva annunciato la sua presenza. E’ la nostra occasione per trovare una produzione come si deve. Per arrivare a Milano. Arturo ci spera davvero e, con il suo ottimismo, ha contagiato tutti. Così, mentre ridiamo e beviamo, di mangiare non si parla, stiamo tutti un po’ di tre quarti, sorvegliando l’entrata del ristorante. Sia mai che spunta. Quindi un po’ di nervosismo serpeggia fra gli attori.
L’unico completamente rilassato è Oreste. Non ha mai dimostrato molto interesse per quel produttore. Per nessun produttore, per essere sinceri. Lui crede di potercela fare da solo, senza aiuti. Il lavoro, ripete spesso, porta sempre frutti.
Poi, come un’epifania, Maghinardi spunta davvero. E, come nei film americani, ci offre davvero il contratto. E quello che segue si può definire soltanto in un modo: isteria.
Maghinardi beve con noi un bicchiere. Poi ci lascia. “Dovete festeggiare, credo.”
Lo guardo allontanarsi, oltre i vetri, nella pioggia di luce. Raggiunge una macchina decisamente più rappresentativa della mia. Poi lo perdo nella notte di fuori.
Il consumo di vino ha subito, dopo la notizia ricevuta, un’impennata notevole.
Ma l’allegria viene spezzata di schianto.
“Io non verrò.”
Tutti si stanno guardando intorno alla ricerca del proprietario della voce che ha affermato una tale assurdità. Io non ne ho bisogno. So di chi è la voce. Temevo proprio questo. Alzo lo sguardo e trovo il suo, sorridente.
“Ma voi andate. E’ una buona occasione. La compagnia funziona. Un regista lo potete trovare anche a Milano. Oddio. Non bravo come me. Ma la sua figura la dovrebbe fare. Voi la vostra la farete.”
Perdo il contatto con il mondo mentre tutti gli altri saltano in piedi e iniziano a tempestare Oreste di domande. Alcuni si sono addirittura arrabbiati. Quasi tutti gli chiedono perché. Ma lui non darà risposte. Anche con me ha sempre fatto così. Forse non le ha.
“Non preoccupatevi. A Maghinardi interessa la compagnia, non io. Io preferisco continuare il mio lavoro qui. Ho troppi progetti in ballo. Magari tra un paio d’anni sarò abbastanza libero e vi raggiungerò.”
Mente meglio di chiunque altro. E tutti, magicamente, si tranquillizzano. Come per incanto tutti i progetti comuni, le ore di lavoro, i dolori e le arrabbiature diventano passato, soppiantate dalle opportunità di una nuova, diversa, eccitante avventura.
Oreste è già un corpo estraneo.
Mi è passata l’allegria. Ma la serata è ancora lunga.
Due ore dopo, finalmente, lasciamo il locale.
Tutti si allontanano seguendo la propria via. Alcune improbabili coppie, quelle da notte dopo la prima, si allontanano dondolando verso mete prevedibili. E finalmente posso chiederglielo.
“Perché?”
“Lo sapevi che non avrei abbandonato il teatro. Il mio lavoro è qui. Devo fare ancora molte cose.”
“Le potresti fare anche a Milano.”
“No. Lo sai. Ma per te è un’occasione unica. E anche per gli altri. Io resterò qui.”
“E noi?”
“Milano non è lontana. - Mente meglio di chiunque altro, ma stavolta non gli riesce. - Faremo un po’ su e giù.”
“Non lo farai. Non lo faremo. Io ti amo.”
“Anch’io Eugenia. Non devi preoccuparti.”
Il sogno di una vita sta proprio davanti a me. Voglio andare con la compagnia. Voglio recitare in teatri veri. Voglio andare. Ma non riesco a staccarmi da lui. Non posso perderlo. Non ce la faccio. La morsa allo stomaco, la stessa che mi prendeva da bambina, torna a farsi sentire. Combattuta tra due pulsioni cerco in me la risposta. Poi, vigliacca, lascio che scelga lui.
“Se vuoi che resti devi solo chiedermelo.”
“Non posso farlo Eugenia. Non posso chiederti di sacrificare i tuoi sogni per me.”
“Hai detto che mi ami.”
“E proprio per questo non posso.”
Come facevo da bambina, cerco un sotterfugio, un modo per fargli dire quello che non vuole.
“Ora io vado a prendere la macchina. Se vuoi che resti con te raggiungimi e vieni a casa mia.”
“Dai Eugenia. Non siamo più bambini.”
Mi volto. Smetto di ascoltarlo e di guardarlo. Sento che mi dice ancora qualcosa. Ma non lo ascolto. Raggiungo il mio macchinino, apro la portiera, mi siedo, accendo il motore. Chiudo gli occhi e aspetto mentre la magnifica invenzione del signor Ascoppio fa il suo lavoro.
Dieci minuti dopo il rumore della marcia, ingranata con rabbia, mi riporta al mondo.
Al mio nuovo mondo.
Sola.
Non so dire se ne fossi davvero convinta. O se non fosse invece il mio desiderio di essere amata.
Prima di te non avevo capito quanto buia fosse la mia vita, quanto degradanti alcune relazioni.
Nella luce fredda dei lampioni (Che ore saranno state? Le due? E’ importante sapere precisamente quando muoiono i sogni.) vidi per l’ultima volta i tuoi occhi.
La luce (Ancora? Ricordo lattigine biancastra come albume d’uovo. Densa?) tracciò il tuo profilo per un momento.
Poi mi voltai.
La tristezza non si impossessò di me subito. Per un lento, lungo, inutile momento continuai a trattenere il tuo ricordo, sperando di sentire la tua mano.
Inutile. Ti avevo già perso. Troppo distante.
Cercai di negare il movimento sulle mie labbra. Cercai di celare il tuo nome.
Ma fu subito buio.
Per sempre buio.
Quando fu evidente che il dolore, sedimentando, non portava speranza di lenimento alcuno, si rifugiò Orfeo sul monte Rodope, in Tracia.
Trascorse il tempo in solitudine e disperazione.
Qui ricevette soltanto ragazzi che istruiva all'astinenza. Giovinetti cui spiegare le verità sull'origine del mondo e degli dei. Cui parlare di poesia e musica.
Visse separato dal resto del mondo a lungo, Orfeo. Ma questo non impedì che la sua voce venisse udita, che il suo volto venisse visto.
Molte donne tentarono allora di catturarne il cuore. Tra esse alcune Baccanti, seguaci di Dioniso.
Erano donne sanguigne e violente, bellissime e pericolose: durante le feste che si svolgevano in onore di Dioniso sui monti della Tracia, esse si abbandonavano sovente a ogni genere di eccesso, nude o coperte di pelli. Godevano in animale lussuria. Il desiderio, mille e mille e mille volte alimentato dal fermo rifiuto di Orfeo, fu allora una forza potente.
Arrabbiate per l’indifferenza del poeta e accese da Dioniso che lo aveva in odio per la mancanza di devozione che dimostrava nei confronti del suo culto, quelle donne decisero di ucciderlo durante un'orgia.
Lo attirarono, inconsapevole, sul luogo del rito e, arrivato il momento stabilito, si scagliarono contro di lui con furia folle, lo fecero in pezzi e sparsero le sue membra per i campi gettando la testa nell' Ebro.
"... anche allora, mentre il capo di Orfeo, spiccato dal collo bianco come marmo, veniva travolto dai flutti, “Euridice!” ripeteva la voce da sola; e la sua lingua già fredda: “Ah, misera Euridice!” chiamava con la voce spirante; e lungo le sponde del fiume l'eco ripeteva “Euridice”."*
Le pietre, la terra, i pesci, gli animali tutti piansero la morte del cantore. Le ninfe vestirono una veste nera in segno di lutto. Le Muse, piangenti, raccolsero le sue membra e le seppellirono ai piedi del monte Olimpo, dove ancora il canto degli usignoli è più dolce che in qualunque parte del mondo.
Dispersa la testa, morto Orfeo, sembrava che la triste storia del poeta supremo fosse alfine giunta a conclusione. Ma poiché il delitto delle Baccanti era rimasto impunito, gli dei, cui Orfeo era caro, colpirono la Tracia con una terribile pestilenza. Molti furono i morti. Molti più di quanti sembrasse possibile contare.
Quando ogni speranza che la pestilenza potesse finire andò perduta, i cittadini di Tracia consultarono l’oracolo.
Egli rispose che per far cessare la moria, per allontanare quell’incredibile disgrazia, era necessario ricercare la testa di Orfeo e rendere al poeta gli onori funebri.
Lunghe furono le ricerche. Estenuanti. Ma non infruttuose.
Il suo capo reciso fu trovato da un pescatore presso la foce del Melete e deposto nella grotta di Antissa.
In quel luogo la testa di Orfeo iniziò a profetizzare finché Apollo, vedendo che i suoi oracoli di Delfi, Grinio e Claro non erano più ascoltati, si recò alla grotta e gridò alla testa di Orfeo di smettere di interferire con il suo culto.
*Virgilio: Georgiche IV
4. Ma perché?                                                             
Adesso
“Questa terza parte non la capisco, Ale.”
“Perché?”
“Perché mi sarei aspettato un altro racconto. Un altro punto di vista.”
“In fondo è così. Un altro Orfeo, un’altra Euridice, un altro Aristeo. E poi mi premeva portare l’attenzione sull’assenza dei perché, delle risposte. In fondo non c’è nessun buon motivo per cui Orfeo, oppure Oreste, si volti. E’ un tema antico.”
Alberto, come fa sempre quando una cosa gli interessa, si accomoda meglio sulla poltrona, afferra la bottiglia di birra e se la tiene in braccio. Ogni tanto tira una sorsata. E mi osserva piano. Non ha bisogno di farmi domande. Lo so che vuole che continui. E io ho proprio voglia di parlarne.
“Si sono tentate tutte le possibili interpretazioni del mito. Quella che va per la maggiore dice che Orfeo, durante la risalita, si rende conto di amare quella Euridice che porta nel ricordo. Perfetta, bella, pura. Quella che sta portando in salvo, invece, è destinata a invecchiare, corrompersi. Per questo si volta. Perché è innamorato della prima Euridice. Una leggera variante interpretativa la fornisce, temo involontariamente, Vecchioni nella canzone, quando dice “tutto quello che si piange non è amore”. Ma sto divagando. Altri giustificano l’atto di Orfeo con la fallibilità umana. Un atto di disattenzione quindi. E poi altre interpretazioni. Tutte improbabili.”
“D’accordo. Di questo abbiamo già parlato. E allora?”
“E allora io parto da un’interpretazione diversa. Orfeo fallisce perché deve fallire. Perché l’arte, che Orfeo rappresenta, non può sconfiggere la morte. Per questo fallisce.”
“Scusa Ale, ma mi sembra una sega mentale.”
“Probabilmente lo è. – gli sottraggo la bottiglia. Tenendola fra le gambe l’ha intiepidita. La birra tiepida è terribile. Mi alzo per prenderne un’altra. – Ma se ci pensi non è così sbagliato. Quale ragione più ovvia di questa? Orfeo deve fallire. Quindi fallisce. E così il mio Oreste. Deve abbandonarla per essere funzionale e perché, altrimenti, il messaggio non arriva. Certo, avulsa dal contesto degli altri racconti, la storia prenderebbe significati tutti diversi. Ma il taglio, l’ottica è quella del racconto complessivo.”
“Ti basi però su una storia effettivamente accaduta. Non credi che le analogie siano un po’ forzate?”
Questo è il punto debole di tutto il mio ragionamento. E’ vero. Forse mi sto arrampicando sugli specchi cercando di dare al tutto un’omogeneità inesistente. Ma devo ammettere che, per alcuni secondi, ho visto la luce. Ho visto la storia nella sua globalità e mi ha convinto. Il problema è riuscire a scriverla. Ma è sempre quello il problema. Alberto mi conosce e sa bene quali sono i miei dubbi in questo momento. Ecco perché mi è sempre piaciuto parlarne con lui.
“Non troppo forzate. In fondo la compagnia è un pretesto. Mi è balzata in mente da sola perché vidi quello spettacolo. Eravamo insieme?”
“No. Io lo vidi due giorni dopo di te. Mi avevi massacrato: è bellissimo, una rilettura interessantissima. Così andai a vederlo. E non mi piacque neanche tanto. Orfeo e Euridice riletto dagli occhi di un pazzo. Un’idiozia.”
“Però quella che faceva Euridice era notevole.”
“Si chiamava davvero Eugenia?”
“Sì.”
“Che fine ha fatto?”
“Non ne ho idea. So che la compagnia, a Milano, non funzionò. Si sciolsero l’anno seguente. Anche Oreste non ebbe fortuna. Ha avuto problemi grossi ed è finito in ospedale. Problemi mentali. Poi più niente. Non ho saputo più niente di nessuno di loro.”
“D’accordo. Ma i brani fuori contesto?”
Altro punto dolente. Lo so che non tornano con il resto.
“Li ho messi dentro perché mica è detto che i lettori conoscano il mito. Così gli consegno un po’ di particolari in modo che non restino boccheggianti.”
“Chi?”
“I lettori.”
“Stai scherzando, vero?”
“No, che…” Mi rendo conto solo adesso che mi sta perculeggiando vilmente. Penso seriamente di colpirlo con un bastone. Poi lascio perdere.
 “Va bene, va bene. – riprende lui -  Torniamo al racconto. Come pensi di chiuderlo?”
“Pensavo di intitolare il prossimo capitolo…         





A questo punto dirvi QUANDO sarebbe assurdo, non credete?
Il sifone del bagno impiega trecentosedici secondi a riempirsi, la veneziana che copre l’unica finestra è composta di centododici lamelle verdi, sulle pareti, sopra il limite demarcato dalle mattonelle azzurro pallido, graffiti numerici ricordano il tempo in cui ancora cercava di quantificare i giorni.
La conta procedeva nel modo classico: quattro barre parallele e una quinta a sbarrarle. Eredità probabile di mille film, tutti con Steve McQueen. O, almeno, di questo lui è convinto.
Ogni dieci gruppi di barre tornare a capo. Ogni dieci volte a capo si inizia un nuovo blocco.
Sulla parete si vedono quattro blocchi e alcune barre di quello che avrebbe potuto essere il quinto.
Rimasugli del tempo in cui ancora cercava di quantificare i giorni.
Ha la sensazione che il non quantificato sia stato di più.
Oggi la pena avrà fine. L’uomo in piedi vicino alla finestra gli ha detto che è molto contento dei progressi che ha fatto.
Ha ragione.
Non riesce a capacitarsi di quello che è accaduto.
Sì, era certamente sotto stress. Troppi progetti. Dopo che la compagnia era partita aveva dovuto ricominciare da zero. Il lavoro si era triplicato. Aveva voluto riproporre lo stesso lavoro. Ma ricostruire la compagnia era stato durissimo. E gli mancava Eugenia.
Non riesce a capacitarsi. Era sempre stato un uomo equilibrato. Eppure qualcosa nel suo cervello aveva fatto click. E lui aveva passato tutto questo tempo a credere di essere uno dei suoi personaggi.
Improvvisamente sente che tutte le sbarre mancanti, l’assenza dei blocchi, l’esistenza di tutto quel tempo non computato, così tanti giorni non quantificati, sono in qualche modo riduttivi della pena che il vivere in quel posto è stata.
Non è giusto.
Prende la forchetta che nasconde sotto l’armadietto e inizia a completare quei graffiti.
Una barra, un giorno, ventiquattro ore, millequattrocen-toquaranta minuti, ottantaseimilaquattrocento secondi di simulato passato.
Due barre, tre barre, quattro barre. Poi sbarrare. Adesso i secondi sono quattrocentotrentaduemila.
Quattrocentotrentaduemila per ogni pentagramma. E sono già dieci.
Inizia la riga successiva.
E prosegue.
In breve tempo termina un blocco.
Inizia il successivo. Ma dopo la prima riga si rende conto che non era poi così importante. Ancora un pentagramma, due.
Si allontana e guarda quei quarantottomilionitrecento-ottantaquattromila secondi in più.
Non si chiede neanche quanti ne manchino ancora. Adesso la parete è più piena. Più armonica.
Cosa stava facendo? Quanto fosse durata era ormai inutile da conoscere. Passato simulato.
Adesso la pena era finita. Da domani avrebbe dovuto ricominciare. Si trovò a pensare a che cosa avrebbe fatto. Non poteva tornare a casa sua. No. Aveva bisogno di cambiare tutto. Avrebbe cambiato nome. Gli sembrò comica l’idea di farsi chiamare Aristeo. Per la prima volta da tanto tempo si trovò a ridere. E la sensazione fu piacevole. “Perché no. – pensò – Aristeo.”
Preso dal gioco decise anche che si sarebbe stabilito in Sardegna, dove nessuno lo conosceva. Proprio come Aristeo.
Basta con questi pensieri. Ancora un giorno da passare. Ventiquattro ore, millequattrocentoquaranta minuti, ottantaseimilaquattrocento secondi.
Il sifone del bagno impiega trecentosedici secondi a riempirsi, la veneziana che copre l’unica finestra è composta di centododici lamelle verdi, sulle pareti, sopra il limite demarcato dalle mattonelle azzurro pallido, graffiti numerici ricordano il tempo in cui ancora cercava di quantificare i giorni.
57 anni (meno qualche ora) dopo che Orfeo si è voltato di nuovo
Torna il silenzio tra gli ulivi. Le croste mangiucchiate del formaggio vengono abbandonate sul tavolo.
“E ora andate al mare. O a giocare da qualche parte. Io sono stanco. Devo dormire.”
I bambini si allontanano. A metà tra l’eccitato e il deluso. Marco sogna già da qualche mese una donna che lui è convinto sia Euridice. Ha deciso di diventare poeta. Così, se la incontrerà, non ci sarà un Orfeo che la possa portare via.
Aristeo si appoggia nuovamente sul tavolo. Per qualche istante pensa alla sua vita passata, a quando aveva altri obiettivi. Non riesce a ricordare più il suo vero nome. Ricorda la sua Euridice. E ricorda il giorno in cui si voltò. “Che strano, - pensa – erano anni che non mi tornava più alla mente. Perché adesso?”
Altre immagini della sua vita passata gli attraversano la mente: i giorni rinchiuso in quella stanza, il sole della Sardegna, la luce che pioveva fuori dalle finestre del locale.
Si scuote e scaccia i pensieri. Prende tra indice e pollice una delle croste di formaggio e la sistema nell’angolo più lontano. Ripete l’operazione con la seconda, posizionandola parallelamente alla prima, poi la terza, la quarta. Poi afferra la quinta e la mette di traverso sulle altre quattro: quattrocentotrentaduemila. Il pensiero lo fa sorridere. Si domanda quante siano le assi che compongono il piano del tavolo. Quasi automaticamente si trova a contarle. Otto. Quattro le zampe.
Spazza con l’avambraccio le briciole rimaste sul tavolo.
Si accomoda meglio. E’ fresco adesso. E’ l’ora di dormire.
Il vecchio sulla sedia sembra parte del torrido paesaggio.
Dorme. L’ombra di un ulivo gli concede insufficiente frescura. E infatti, spesso, ha brevi risvegli, durante i quali cerca una miglior posizione di appoggio sul tavolino di legno. Sul tavolo, del formaggio, una forma da cui manca una robusta fetta, e un vaso di miele.
L’uliveto che lo circonda appare sterminato, infinito. In lontananza il mare azzurro e il cielo, non ben demarcati dalla linea d’orizzonte, si confondono. Una nuvola inutile e bianchissima indugia lontana dal sole.
Nella semi incoscienza Aristeo vede per un attimo un volto vagamente familiare. I capelli, corvini, incolti, spettinati, occupano, anarchici, lo spazio intorno al cranio. Gli occhi, con quello sguardo vivo, marroni con un riflesso verde tenue, corrono continuamente a osservare ora quel particolare, ora uno nuovo.
Un sogno? Un ricordo?
E adesso, nel tempo che appare cristallizzato, Aristeo muore.
“Muore? Così?”
“Che ti aspettavi Albe? Niente di epico. In definitiva è quasi sempre così. Si muore. E basta.”
“Che razza di finale sarebbe?”
“Chi ha detto che è il finale?”
Nella casa di mio padre venni iniziata alla conoscenza delle arti astronomiche babilonesi. Da ogni parte della Tessaglia provenivano studiosi per consultare testi dall’infinita biblioteca di Egemone. La presenza di tante brillanti menti rese facile, quando non piacevole, addentrarsi nello studio.
Negli anni della mia infanzia ero già stata introdotta all’adorazione di Ecate, dea madre, una e trina. Segretamente, nascosta agli occhi di mio padre, completai la mia educazione. Da una parte lui mi addestrava alla conoscenza del cielo, alla comprensione del Saros, il lungo ciclo della luna, e alla fondamentale importanza dei suoi incroci con il sole. Dall’altra le mie maestre, mia madre e la compagna di lei, mi insegnavano la vera conoscenza, quella che deriva dalla signora della luna stessa.
Nel breve volgere di una decina di anni mi impadronii della capacità di prevedere le eclissi e di comprendere il funzionamento del meccanismo che muove le stelle.
Ma, lungi dal recarmi vantaggio, questa mia conoscenza mi rese reietta agli altri. Come sempre capita a chi non riesce a capire, i piccoli uomini che abitano la terra iniziarono a chiamarmi strega, a temermi.
Ero divenuta colei che faceva scomparire la luna.
Conoscenze tanto precise erano incomprensibili per gli uomini ignoranti che mi circondavano. A maggior ragione in una donna. Così si difesero nell’unico modo che gli fu possibile: era magia.
Doveva essere magia. Stregoneria, anzi.
Quella donna, quella figlia di Egemone, era ormai una sacerdotessa malvagia di Ecate, la signora della luna. Aglaonice la strega.
Questo divenni.
E tale e tanto fu il mio disgusto per quei piccoli uomini che decisi di non confutare le loro affermazioni. Questo volevano pensare? Questo pensassero.
Anni dopo trovai sollievo nella compagnia di alcune donne dedite al culto di Dioniso. Per quanto fossero pronte a ogni forma di eccesso, per quanto fossero disposte a ogni licenziosità, per quanto si abbandonassero spesso alla lussuria, trovai in loro una capacità di comprendere superiore a quella degli altri che calpestano la terra. Questo stile di vita eccessivo le portava a non giudicare blandamente. Accettarono la mia presenza e videro, anzi, in me, una guida. Un modello.
Alcune di loro si interessavano di astronomia. Questo rese le mie giornate meno vuote: avevo delle compagne con cui parlare delle mie passioni.
Quale esperienza entusiasmante fu la vita assieme a loro.
Dopo due anni di frequentazione sarebbe stato davvero duro dire chi avesse appreso di più: loro da me o io da loro.  
Venne in quel tempo, in terra di Tessaglia, un cantore di nobili origini, di notevole bellezza e di innegabili, incomparabili capacità. Era un cantore, già noto per le sue avventure con gli argonauti e per il suo sventurato amore per una donna: Euridice.
Alcune delle mie sodali si lasciarono prendere dal desiderio di Orfeo, questo era il suo nome, e iniziarono a frequentarlo, a colmarlo di offerte d’amore.
Tanta era la sua solitudine, tanto il suo dolore, che io stessa sentii il desiderio di stringerlo tra le braccia, di colmare quel vuoto insanabile che lo opprimeva. Ma lui, come già aveva fatto con le mie compagne, rifiutò il mio amore.
Pensai che fosse un pover’uomo. Così compreso nel suo dolore da non riuscire a vedere altro fuori da esso. Pensai di doverlo compatire.
In fondo, anche lui era una persona fuori dal flusso del tempo, incoerente rispetto a quell’età. Pensai che potessimo in qualche modo essere affini.
Quello che non immaginavo era che quel suo rifiuto avesse a tal punto intossicato la mia anima.
Avvenne durante un baccanale, una delle feste che le mie compagne amavano tenere nei boschi. Dopo aver reso onore a Dioniso ci abbandonammo, come è giusto fare in quelle occasioni, al richiamo dei sensi. Alcuni giovani, attirati fra noi, allietarono le nostre ore di festa. Tra loro un giovinetto che, per beve tempo, era stato discepolo di Orfeo.
Al sentirne il nome una nuova ruga solco il mio cuore. Un dolore sordo, inaccettabile.
Soffrivo.
Fu evidente che anche molte delle donne che, con me, partecipavano alla festa, avevano sentito quello stesso formarsi. Ma non sarebbero state in grado di focalizzare quel dolore se non fosse stato per me. Con l’aiuto del vino portai a galla il loro risentimento.
Poi le parole ebbero il sopravvento. E l’odio.
Perché cosa può nascere dal rifiuto d’amore?
In breve la decisione fu presa: Orfeo doveva morire.

26 anni dopo
Due grandi colonne delimitano l’entrata del locale. In alto, in mezzo, una targa ricorda un generoso ex studente e il suo impegno in favore dell’università. Dentro la temperatura è sensibilmente più alta. La cosa lo obbliga a liberarsi precipitosamente del lungo cappotto bordeaux. Una graziosa hostess (credeva vivessero soltanto sugli aerei) si precipita a prenderlo e, dopo avergli indicato, sorridente, l’entrata dell’aula magna, sparisce dietro una tenda. Non riesce a non preoccuparsi per la sorte del cappotto. Si scuote e inizia a dirigersi nella direzione che gli è stata indicata. Un’altra ragazza, più magra, bruna, con un faccino che ricorda vagamente un castoro, gli si fa incontro.
“Mi segua.”
Vagamente stordito dal brusco sbalzo di temperatura (e fondamentalmente perché non ha niente da dire) la segue in silenzio. Lei si volta spesso a sorridergli. Così lui non trova di meglio da fare che restituire il sorriso che, però, gli esce storto, inefficace. La ragazzina che sembra un castoro lo nota e si rabbuia. Se ne dispiace, ma, come per il sorriso, anche questo gli viene storto. Ultimamente tutto gli viene storto. Si sta domandando da alcune settimane se questo non sia un segnale. Forse si dovrebbe sforzare di essere un essere umano migliore. Conclude che, probabilmente, questo farebbe di lui un poeta peggiore. Decide che è meglio tacere il più a lungo possibile, per quella sera, prima di offendere qualcuno.
La sala ha un che di opprimente. E tutte quelle persone sedute hanno sguardi troppo severi. Si è sempre trovato male tra gli accademici. La sua opera ha ormai superato le barriere della cultura ufficiale. Giocoforza è obbligato a imparare a convivere con occasioni come questa. Non può più evitare gli impegni, anche mondani, che derivano dal suo lavoro. Quando decise di dedicarsi alla poesia (quanti anni sono passati) non immaginava minimamente che anche questo sarebbe accaduto. I poeti, mediamente, muoiono di fame. Sconosciuti. A lui, e non sapeva quanto questo fosse un bene, era toccata sorte completamente diversa. Per motivi che gli restavano tuttora ignoti la sua poesia aveva fatto breccia nelle orecchie degli altri. Era stato un crescendo inarrestabile. Prima le pubblicazioni, poi i riconoscimenti e i premi.
 E’ per questo che si trova qui. Deve ritirarne uno.
Ancora seguendo la ragazzina raggiunge il palco. La sua presenza in sala è già stata notata. Per tutto il tragitto ha sentito la gente mormorare. Ma tutti si sono trattenuti per non sciupare l’effetto.
L’applauso infatti è caloroso e i volti si fanno sorridenti quando, con un po’ di impaccio, sale sul palco.
Poi è una lunga teoria di discorsi. Un distinto signore vestito come lui immagina si debbano vestire gli impresari di pompe funebri disturba i presenti con una lunga lettura tratta da un saggio che ha scritto sulla poesia e i poeti oggi. Che, si immagina Marco, non devono essere poi tanto diversi dai poeti ieri. E neanche dai poeti domani. Quindi l’oratore declama, distruggendole, due poesie. La ragazza castoro lo raggiunge silenziosa da dietro.
“Tocca a lei. Vuole un bicchiere d’acqua?”
Voltandosi riesce a sorriderle un po’ meno storto di prima.
“Sì, grazie.”
L’impresario di pompe funebri termina l’intervento precipitosamente (forse si è reso conto di quanto sia stato mal sopportato) obbligando il rettore, che sta conducendo la serata, a schizzare in piedi, guadagnare il microfono e annunciare che è arrivato il momento di ascoltare l’ospite d’onore della serata. Realizza che stanno parlando di lui e sorride storto, come ormai d’abitudine. Mentre si alza incrocia lo sguardo della ragazza castoro che si sta scapicollando con in mano il bicchiere d’acqua.
In quel preciso momento ambedue si rendono conto che quel bicchiere non potrà mai raggiungere in tempo il palco, che lui non potrà aspettarlo, che la corsa che la ragazza ha fatto è stata inutile.
Lui si sente vagamente e inspiegabilmente in colpa. Così le indirizza un sorriso. Che gli esce (come dubitarne?) storto.
Prima di dirigersi verso il palchetto del microfono lui fa in tempo a formalizzare un solo pensiero: difficilmente riuscirà a portarsela a letto. Eppure il primo sguardo che lei gli aveva indirizzato era stato promettente.
Niente da fare. Si era bruciato la possibilità. Troppi sorrisi storti. Forse poteva ancora recuperare con quella del cappotto.
Sale sul palchetto. Tira un sospiro profondo:
“Mi dovrete perdonare. Sono decisamente imbarazzato. Come dicono i miei amici sono un uomo dalle scarse capacità sociali. E, nonostante abbia trascorso ore a cercare di scrivere un qualcosa che potesse risultare passabile per l’occasione, ho fallito miseramente.
Vi ringrazio per questo premio.
Non avrei mai pensato, dieci anni fa di poterlo avere…”
 Infila una bella pausa lunga, di quelle che ama tanto in poesia. Ma, inspiegabilmente, si rende conto che in prosa ci sta storta, come sicuramente il resto della serata nella sua vita
“…Vi chiedo perdono ma non sono un grande oratore. Mi trovo più a mio agio con la penna. Ma, e interrompo così questa deriva di pensieri, ci tengo che questo premio sia accompagnato da una dedica…”
Osserva la targa che è stata posta accanto a lui. Sofferma lo sguardo sulla motivazione battuta a macchina sul discorso ufficiale che qualcuno ha abbandonato sotto alla targa: XXXIII Premio internazionale di poesia “Orfeo e Euridice”. A Marco M., per il libro “Risalendo dall’inferno”, opera piena e matura che colloca il suo autore tra i migliori della sua epoca.
“…che, capisco, non risulterà certo originale. Ma è un dovere che mi sono imposto tanti anni fa: dedico questo premio all’uomo che è stato la causa di tutto quello che ho scritto.
A mio nonno Aristeo.

Si fosse trovata all’inizio sarebbe stata una “Prefazione”. In fondo decisamente “Postfazione”.
Ma in mezzo?
A voler rispettare una logica filologica sarebbe dovuta essere una “Infrafazione”.
Che, mi perdonerai, è termine veramente orribile.
Poi c’è questa cosa qui, del parlare con te, che infrange tutte le regole del sano autore di prosa.
Per cui, grazie a elegante elisione, è venuto fuori questo “Infra-zione” che mi sembra adatto.
Lo so che il trattino ci combina poco. Ma, a orecchio, mi sembra che così si conservi meglio il gioco di parole.
Se ti dovesse dare molto fastidio puoi togliercelo con del bianchetto. Ma sono convinto che hai un sacco di cose più importanti da fare.
Bene, sistemata questa questione squisitamente semantica, direi che si potrebbe procedere con il senso di tutto questo.
Perché, ti starai domandando, una “Infra-zione”?
Non preoccuparti, niente da spiegare. Non si dovrebbe mai spiegare alcunché. Nel momento in cui le mie parole si staccano da me, nel momento in cui le leggi, esse cessano di essere mie e diventano tue.
E con le tue parole tu ci fai quello che ti pare. Te le spieghi da solo se ne hai voglia.
 No. La motivazione di questa “Infra-zione” riguarda il profilo strutturale di “Orfeo e Euridice sono una buona scusa”.
Per puro fine utilitaristico finora la sequenza temporale dei brani ti ha guidato nella lettura. Nel senso che, a meno che tu non sia uno schizofrenico lettore compulsivo anarchico, hai letto i brani nell’ordine in cui essi ti venivano proposti. Quindi, in qualche modo, io ho scelto il modo in cui tu avresti letto il tutto. Ma (so che questa cosa ti turberà) questo è un tutto decompilato. La fruizione della storia/e è slegata dalla sequenza temporale. Per il mio gusto ci sono almeno quattro vie buone per leggerlo. Immagino che, in realtà, ce ne siano un sacco di più.
A quello che mi si dice, pare che la via più comoda sia quella che segue le diagonali (qualsiasi cosa voglia dire), la più bella quella in ordine cronologico. Quella che stai seguendo, sempre a detta di quelli che affermano quanto sopra, la più illogica.
A questo punto starai pensando: e allora? Cosa dovrei fare secondo te? Ricominciare da capo?
Non me la sentirei di chiederti questo. Ma, effettivamente, questo è un racconto/progetto/libro che non si può sbrigare in una lettura. Credo che, comunque, ormai dovrai fidarti di me e finire di leggere nell’ordine che io ti propongo. Ma sarebbe veramente bello se, dopo, tu provassi a ricompilare il tutto e lo rileggessi. Sono convinto che ne trarresti notevole giovamento.
Nel caso tu avessi voglia di fare tutta questa fatica devo ricordarti che le notazioni temporali inserite dopo i titoli sono funzionali all’ordine che io ho deciso di dare a questo lavoro. Se lo ricompili non dovrai tenerne conto. Il massimo sarebbe se tu provvedessi a riscrivertele a seconda del tuo ordine e della forma che darai alla materia grezza che il racconto/progetto/libro é.
Cosa dirti ancora?
Per puro autocompiacimento ti dico quali meccanismi, quali “chiavi” ho utilizzato nella stesura del racconto/progetto/libro. Tu non troverai alcun giovamento nel conoscerle. Ma se un domani il mio psicanalista dovesse leggere queste parole mal accordate, potrebbe trovarmi il guasto e, magari, ripararmi.
La prima chiave è stata il sistematico sabotaggio della sospensione di incredulità: tra lettore e autore si instaura un patto non scritto che recita “crederò a tutto quello che mi racconti purché scritto bene”. Io ho provato a scrivere una cosa nella quale tu non mi credi. Da provare a riuscire corre parecchia strada, lo so.
La seconda riguarda il tentativo di sottrarti ogni meccanismo di immedesimazione o di estraniazione nei riguardi dei personaggi. Sono meccanismi naturali. Tendiamo a identificarci con uno o più personaggi quando leggiamo. Ma anche quando vediamo un film. Oppure, per converso, tendiamo a vedere il personaggio come una sorta di nemesi. Lo sentiamo tanto estraneo a noi da avvertirlo odioso. Ho cercato di non permettere a nessuno dei miei personaggi di essere molto simile o troppo dissimile da te.
La terza chiave concerne la sostanza. Di cosa parlo? E qui, per capire, dovrai finire il tutto. Niente ti vieta di piantarla qui e archiviarmi tra i casi clinici.
La quarta è inerente la circolarità e la teoria del caos. E qui darti indicazioni è difficile perché sta tutto in quel labirinto complesso che è il mio modo di pensare (come in tutti i modi di pensare suppongo): Aristeo determina la morte di Orfeo (con il suo folle gesto) e la sua rinascita (con i suoi racconti e le loro conseguenze), Orfeo determina l’inizio del peregrinare di Aristeo e la sua fine. Aglaonice (non a caso letterariamente esistente solo nella storia di Orfeo) ama fino a odiare e torna ad amare, inconsapevole. E nell’oscillare tra i due sentimenti compie la sua intera parabola.
La quinta (l’ultima, stai tranquillo) tocca l’assoluta impossibilità di far coincidere i profili soggettivi e oggettivi di una storia. Questo vale per tutto. Per la nostra vita come per questo racconto. Ho provato a rafforzare il concetto con i vari ritorni dagli inferi.
Direi che non ci sono altre cose da aggiungere. Tutto quello che volevo dire sta dentro. Le cose che ritenevo giusto spiegare (solo per evitare fraintendimenti. Ma anche questo fa parte del gioco. Riuscirai comunque a fraintendermi facilmente) le ho fatte spiegare dai miei personaggi.
Niente altro, quindi
Invitarti a leggere. Ecco.
Questo posso farlo. Lo so che non è una lettura facile. Ma almeno potrai rimandare il giorno in cui sarai costretto ad ammettere: quel libro non sono riuscito a finirlo.

Tornando indietro a poche ore dopo l’ultima volta in cui ho parlato con Alberto. Quindi ad adesso. Che è posteriore all’adesso di prima.
“Sì. Mi ha convinto abbastanza.”
“Davvero? – rispondo simulando appena un po’ di sorpresa. - In effetti credo sia buono.”
“Però…”
Questo me lo aspettavo. C’è sempre un però quando parlo con Alberto. Ma questa volta lo frego. Perché lui non si immagina nemmeno che ho già deciso di proseguire il racconto. Potrei evitargli tutta la fatica di espormi i suoi dubbi e propinargli subito il seguito. Ma vederlo annaspare in questa discussione, dopo le sette birre che ci siamo bevuti nel frattempo, è divertente. E io ho bisogno di una pausa.
Con l’occhio a mezz’asta, senza terminare il discorso ma lasciando intendere che sta cercando le parole giuste, raggiunge il frigo e si impossessa di una nuova birra. Potrebbe aprirne una anche per me. Ma con grande delusione per uno che come me lo ha sempre considerato un compagno, nell’accezione politica del termine, se ne sbatte altamente, si coccola la birra fino alla poltrona e la posiziona a intiepidire nello stesso posto di prima. Dopo alcuni sorsi si decide a riprendere. Dato che la pausa è stata lunga e piuttosto laboriosa mi aspetto un qualcosa di importante.
“Però…”
E qui si ferma di nuovo. E devo ammettere che ne resto decisamente deluso.
“Cosa c’è? – Temo che il tono di questa replica sia stato vagamente aggressivo perché Alberto ha un sobbalzo. Sono troppo nervoso. – Non mi lasciare tra i però.”
“Non so, Ale. I titoli sono molto importanti, mi pare. Ho trovato più indicazioni lì che nei brani. Devo ammettere che la storia della sospensione dell’incredulità finisce davvero per non funzionare. Io ho letto con sospetto. E quel “Riannodando fili” sembra suggerire proprio il fatto che, di lì in poi, stai solo facendo teatro, stai rimettendo insieme i pezzi in un modo che può essere e può non essere. Ma credo che manchi qualcosa. La lettura pretende troppa attenzione. Nessuno è disposto a fare tutta quella fatica. Al lettore basterà aver riordinato la storia in un modo plausibile per tacitare le domande che prima poteva anche porsi. Va bene che ti consideri il più grande autore che il mondo abbia mai conosciuto, ma questo il lettore non lo sa e non gli interessa.”
“Hai ragione. Temo che lo scopriranno solo i posteri.”
“Cosa?”
“Che sono il più grande autore che il mondo abbia mai conosciuto.”
Mi scanso di lato appena in tempo per evitare il cuscino.
“No, scherzi a parte. – Riprende un po’ deluso per la mia prontezza di riflessi. – Credo che alla fine resti un po’ zoppo. Finisce per essere la sega mentale di uno sconosciuto autore di dubbie capacità.”
Lui, fortunatamente, ha riflessi peggiori dei miei.
“Lascia stare l’analisi critica. Non è il tuo forte.”
Gli tiro dietro il pacco dei fogli che avevo intenzione di fargli sudare di più. Ma la battuta sull’autore sconosciuto mi ha urtato. Sono troppo suscettibile ultimamente.

Fingiamo di tornare al momento del “Riannodando fili”. Voi cancellate tutto quello che è successo dopo (considerando come dopo quello che è stato scritto nelle pagine a seguire il già citato Riannodando etc. fino all’Oppure compreso)
“…Qui sconto la pena.”
Il silenzio accoglie queste parole.
L’uomo in bianco (quello di ieri?) ripete la formula: “E’ l’ora…”
Poi aggiunge: “Ade, hai visite.”
Conosco la strada: quindici passi, poi a sinistra, altri trentaquattro passi. Poi la porta con quattro vetri. Oltre la porta la mia signora.
Mi racconta cose senza senso. Anche questo fa parte della pena. Mi dice di essere preoccupata per nostro figlio (figlio?). Dice che sta diventando un donnaiolo, senza cuore. Aristeo cattivo.
Passano inutili, lunghissimi minuti durante i quali la mia signora mi tortura con queste assurdità. Cerco di riportare alla mente le immagini di questo figlio che lei nomina. Poi, un lampo quasi, ricordo un bambino. Occhi verdi e capelli biondi, ricci. Anche questo deve essere parte della pena.
Eppure l’immagine è così nitida. Per un attimo ho la sensazione che se allungassi la mano potrei accarezzarlo.
Un attimo proprio. Sento il calore sul petto di quattro chili scarsi addormentati pesantemente a pancia sotto. Le braccia penzoloni attorno al mio petto e una manina che cerca un chissà quale appiglio all’altezza del fianco. Un respiro così caldo da sembrare innaturale. E un senso di vuoto nella testa (che fosse felicità?).
Agito la testa da destra a sinistra, con violenza. Di nuovo. Cosa mi state facendo?
Non posso essere padre. Sono Ade.
“Sono Ade.” Gridano quelle che immagino siano le mie corde vocali.
L’uomo in bianco (lo stesso di ieri?) non ama le urla. Entra nella stanza repentinamente. Coglie le lacrime (falsissime) negli occhi della mia signora. Mi afferra per un braccio.
Odio che mi si tocchi.
Lo scaccio con un gesto della mano. Ma non c’è più niente di divino in me. Il contatto con questi esseri inferiori è la parte più spiacevole. In un altro tempo, nel mio regno, quel gesto lo avrebbe ridotto a un piagnucolante ammasso di carne, gli avrebbe strappato gli occhi e contorto le interiora. Gli avrebbe procurato un dolore che solo la morte poteva lenire. Ma non ci sarebbe stata morte. Nessuno poteva morire nel mio regno. Non c’è più niente di divino in me. Questo luogo, la mia colpa, mi hanno privato del mio retaggio.
Lui, arretrando di un passo (Ha assecondato la mia spinta. L’ho visto), incespica goffamente e cade a terra senza distogliere lo sguardo dal mio. Non c’è rabbia in quello sguardo. Scorgo una pacatezza che non riesco a capire.
Altri uomini entrano nella stanza e mi afferrano. Mi tengono fermo mentre il primo si rialza.
La mia signora è come svanita nell’aria. Ci sono soltanto i miei carcerieri adesso.
“Ade è nervoso oggi.”
“Forse ha bisogno di qualcosa che possa calmarlo.”
“Si vede che l’ultima volta non è stata sufficiente.”
Smetto di dibattermi. Non ho intenzione di lottare con esseri inferiori. Lascio che mi prendano e che mi portino fuori. Non opporrò resistenza.
Conosco la strada. Settantadue riquadri sul soffitto. Poi a sinistra. Quattro porte in sequenza prima della stanza bianca. Nella stanza c’è soltanto il letto. Nessun riferimento sulle pareti o sul soffitto. Niente oltre al bianco.
Niente che io possa contare.
Nessuna ancora per la mia vacillante ragione. Intuisco la presenza di qualcosa dietro di me. Se potessi voltarmi vedrei tanti fili di diverso colore. Potrei contarli. Le cinghie che mi bloccano in questa umiliante posizione, invece, lasciano al mio campo visivo soltanto il bianco. Latte. Sforzandomi riesco a individuare in quell’abbagliante schermo i due angoli della stanza. Li vedo perché una piccola imperfezione della lampada getta un’ombra rivelatrice proprio lì. Cercando di seguire la riga dello spigolo perdo nuovamente il riferimento. Tutto bianco. Solo bianco.
Quando vengo portato qui c’è solo il vuoto.
Il bianco.
Il silenzio.
Poi due contatti contro le tempie.
Poi verrà il dolore.
Poi più niente.
E il bianco.
E la lunga pausa prima del ritorno dei colori. E dei rumori.
Sento distintamente il suono che precede la scarica. Otto “um”. Li ho sentiti molte volte.
Sento di nuovo quel peso sul petto. E quella sensazione. Come… appagamento.
Due “um” sono passati. Sei restano. Cinque.
Un figlio. Sì. Lo ricordo. Aristeo. Ricordo. L’ho voluto chiamare così io. Ricordo. Orfeo e Euridice. Era la mia tesi universitaria. Lei rimase incinta. Ci sposammo. Studiavo di notte.
Quattro “um” alla scarica.
Dovevo discuterla a maggio. Che mese è questo?
Tre “um”. Due. Un “um”. Non sono Ade. Che sto facendo?
Scarica.
Bianco.
Dal fondo, riemergevano.
Attraversavano il baratro che separa il buio dalla luce (non ricordo la luce. Ricordo la sensazione che comporta la luce. Ho rinunciato alla luce).
Non si può sconfiggere la morte. Per quanto lo vogliano non sconfiggeranno la morte.
Gli occhi di lei, forse potranno assaporarla per un istante (la luce? Ancora?). Perché non è morta del tutto. Non finché vivrà così forte nel suo ricordo.
Ma lui la perderà ancora.
Durante la salita non mi curai di quello che facevano. Ma quando giunsero in alto, quando un solo passo in avanti sarebbe bastato, rivolsi la mia attenzione a loro.
Per un brevissimo momento cercai di convincermi che potevo essere sconfitto, che la morte poteva essere vinta. Per un brevissimo, dolce momento, ebbi la sensazione che non tutto fosse già scritto. Che ci fosse uno spiraglio in cui un poeta potesse incunearsi e uscire vincitore.
Poi cadde.
Conobbi allora, attraverso lo sguardo di lei, lo sparire della luce. Non la luce, beninteso: il suo svanire. Un secondo troppo tardi per vederla.
Io ho rinunciato alla luce. Non potrò rivederla mai più. Assurdo come un poeta che sconfigge la morte.
In quello svanire di visibilità trovai un movimento sulle labbra di lei. “Orfeo”, credo…
Poi fu il buio.
Eterno buio.

Lorde di sangue avevamo disperso brani di Orfeo per la campagna. Avevamo osservato, folli di gioia, la testa ululante di quello stupido uomo allontanarsi trascinata dalla corrente. Ci eravamo abbandonate a grida di vittoria e due giovinette, nuove del culto, ebbre e felici, avevano cantato un peana.
Tutta la notte aveva risuonato delle nostre risa e le energie sembravano non aver più fine. Uomini ad appagare i nostri desideri e vino per placare l’arsura. Poi l’incoscienza e il sonno pacificatore.
Risvegliate dai primi raggi del sole caldo ci eravamo abbracciate e scambiate promesse di fedeltà eterna e di amore. Tornando a casa assieme a una delle giovinette avevo avvertito una specie di dolore al petto. Un peso differente. Un malessere ignoto, diverso da qualunque altro prima conosciuto.
Il giorno seguente, al risveglio, lo stesso dolore tornò a visitarmi. E così per i giorni successivi.
Avvenne il mese dopo, durante un nuovo baccanale, che il motivo di questo peso mi si palesò.
Parlavamo degli straordinari avvenimenti dei giorni passati, della pestilenza e del responso dell’oracolo. Della sepoltura dei resti di Orfeo e della ricerca della sua testa.
Era la prima volta che parlavamo di lui dopo quel giorno. Nel sentirne pronunciare il nome mi accorsi che quel dolore si faceva insopportabile.
Fuggii da quel posto. Corsi a nascondermi fra gli alberi. Le mie compagne restarono colpite dal mio comportamento al punto che decisero di non seguirmi. Avevo bisogno di solitudine. E loro me la concessero.
Com’era possibile? Perché sentivo l’assenza di Orfeo come l’assenza di un mio stesso organo? Perché ero convinta che essere privata di un braccio sarebbe stato meno doloroso? Poi fu chiaro. Avevo amato Orfeo. Lo amavo ancora. E la mia mente, che sapeva che non lo avrei mai più rivisto, mi faceva sentire il dolore della sua mancanza.
Lo amavo ancora.
Cercai il conforto delle altre, segretamente sperando che la mia condizione potesse essere condivisa. Quasi che il dolore potesse essere lenito dalla comunanza. Ma nessuna provava le mie sensazioni.
Anzi, il rendere manifesto il mio stato mi allontanò da loro. Loro avevano odiato Orfeo. Come potevano sopportare di vivere accanto a colei che lo amava.
Così fui sola.
Vissi i giorni seguenti camminando di paese in paese, procurandomi cibo in cambio di previsioni o, più semplicemente, minacciando di far sparire la luna per sempre.
Anche quegli uomini di bassa lega ben sapevano quali e quanti fossero gli influssi della luna. Troppi e troppo importanti per rischiare di esserne privati.
Con il passare del tempo stavo inselvatichendo al punto che anche il solo scambiare poche parole con un mio simile diveniva fastidioso. Non avevo scopo. Non avevo voglie. Non avevo interessi. Soltanto infelicità. La mancanza mi stava uccidendo. Sentivo che non potevo continuare a vivere senza di lui. Ma qualcosa mi costringeva a procrastinare. Qualcosa che non riuscivo a capire. Così continuavo a trascinarmi senza riuscire a risolvermi a porre fine al dolore nell’unico ragionevole modo.
Durante questo cieco pellegrinaggio mi raggiunse la voce del rinvenimento della testa del mio amato.
Ecco quindi il motivo. Sapevo di averlo ucciso, ma il mio cuore era a conoscenza del fatto che lui ancora viveva. Per questo si era rifiutato di farsi fermare.
Potevo rivederlo. Potevo ancora amarlo.
Mi misi in cammino verso la grotta di Antissa. Là era stata deposta la sua testa. Là viveva colui che obbligava il mio cuore a battere ancora.
             





Un’ora dopo
Recitare in quel lavoro era stata una tortura. Non mi interessa minimamente il teatro. E ho in odio la storia di Orfeo ed Euridice. Mi é bastato mio padre. Prima di impazzire passava ore a spiegarmi quelle che erano le sue idee a proposito del mito. Ho sentito quella storia centinaia di volte. E ne ho abbastanza. Sono qui solo per lei. Per Eugenia.
Aristeo era stato trascinato in quel teatro dalla sua amica Lia, quindici mesi addietro. Rappresentavano un drammone senza capo né coda. Roba da rabbrividire. L’unica cosa da salvare era proprio Eugenia. Per la verità quella volta pensò che l’unica cosa da salvare fosse il culo di Eugenia. Per essere precisi, il culo di quella lì, come confidò alla sua amica, che interpretò la sua mancanza di tatto come un presagio della fine della loro storia.
Alla ricerca di un qualunque punto di contatto con quel culo e la sua proprietaria, si decise a frequentare il corso di recitazione tenuto dal regista del drammone in questione.
E lui sembrava entusiasta delle capacità di Aristeo. Diceva che era un attore nato. Che la varietà di registri che riusciva a gestire aveva del miracoloso.
“Bravo. Ecco. Così dovreste fare. – diceva rivolto agli altri aspiranti attori mostrando l’eleganza di un movimento – Come fa Arturo.”
Perché era quello il nome che aveva scelto. Odiava il nome Aristeo. Arturo era molto più elegante.
Aveva bruciato le tappe ed era stato inserito nella compagnia che avrebbe rappresentato il prossimo lavoro.
Quando scoprì che era ispirato al mito di Orfeo e Euridice non poté fare a meno di ridere. E la sua parte era proprio quella di Aristeo. Vai a capire i giochi del destino.
Il suo entusiasmo scemò velocemente. Il manicomio in cui veniva ambientata la scena fu un’altra scioccante coincidenza che non apprezzò. Il lavoro era, a suo parere, brutto. E, soprattutto, Eugenia, che nel frattempo aveva conosciuto e iniziato a corteggiare discretamente scoprendo che non era il culo la sua parte più interessante, si dimostrava sempre più attratta dal regista, Oreste.
Adesso la situazione é addirittura peggiorata: sei mesi addietro Eugenia e Oreste si erano messi insieme. E le cose sembravano filare bene fra loro.
Lei é diventata un’ossessione. Ne conserva una foto nel portafogli e passa il tempo, quando é sicuro di non essere visto, ad accarezzarla. Altre sue foto tappezzano la sua stanza da letto. Quella stanza che, da troppo tempo, abita completamente solo.
Non é abituato a questa castità. Ha sempre avuto successo con le donne. E’ bello e lo sa. Come può lei preferirgli Oreste?
Stasera la voglia di Eugenia mi brucia. La vedo entrare all’Averno con il suo solito passo leggero.
Come sempre riesco a farla sedere accanto a me.
“Sei stata fantastica stasera.”
“No. Tu sei stato fantastico.”
“Lo so. Per me è normale.”
Ridiamo da scemi, come sempre. Oreste la vede e la saluta con un sorriso. E io mi rabbuio. Lei lo sa che speravo in qualcosa di più dell’amicizia. Non che io l’abbia mai detto. Ma è evidente.
Lei si sente improvvisamente a disagio. Me ne accorgo. Così mi allontano.
Mentre tutti stanno ad ascoltare un tipo entrato adesso, mi defilo. Nessuno si accorge che me ne sono andato. Mi fermo fuori dal locale, all’angolo della strada.
Non ci riesco. Devo averla.
Mi rendo conto dell’assurdità di questo pensiero nel momento stesso in cui lo formulo. Eppure, da qualche parte dentro di me, sento che la cosa non è più così impossibile.
La voglio veramente così tanto?
La cena si prolunga meno del previsto. E quando tutti iniziano a uscire io sono ancora lì, dietro l’angolo. Li spio.  
Oreste e Eugenia si fermano a parlottare. Sono abbastanza vicini per poterli ascoltare.
“Perché?” dice lei.
“Lo sapevi che non avrei abbandonato il teatro. Il mio lavoro è qui. Devo fare ancora molte cose.”
“Le potresti fare anche a Milano.”
“No. Lo sai. Ma per te è un’occasione unica. E anche per gli altri. Io resterò qui.” la voce di Oreste è forzosamente “calda”. Sta recitando. Lo fa sempre.
“E noi?” dice lei quasi fra le lacrime.
“Milano non è lontana. Faremo un po’ su e giù.”
“Non lo farai. Non lo faremo. Io ti amo.”
“Anch’io Eugenia. Non devi preoccuparti.”
Una pausa lunga segue queste parole. Improvvisamente mi accorgo di temere che si stiano baciando. Mi sporgo appena e li sbircio. Lei è in piedi a un metro da lui. Ha i pugni chiusi.
“Se vuoi che resti devi solo chiedermelo.” gli dice.
“Non posso farlo Eugenia. Non posso chiederti di sacrificare i tuoi sogni per me.”
“Hai detto che mi ami.”
“E proprio per questo non posso.”
Di nuovo una pausa lunga. Eugenia sta pensando. Assume un’espressione irreplicabile quando lo fa. Poi riprende.
“Ora io vado a prendere la macchina. Se vuoi che resti con te raggiungimi e vieni a casa mia.”
“Dai Eugenia. Non siamo più bambini.” tronca lui.
Lei si volta.
“Dai, Eugenia.” gli dice lui dietro, poco convinto.
Ma lei non lo ascolta. Raggiunge la macchina, apre la portiera e si siede. Accende il motore.
Oreste se ne va per la sua strada e lei resta ad aspettarlo conoscendo già l’inutilità dell’attesa.
Dal mio punto di osservazione ne vedo il profilo, quasi un’ombra cinese all’interno dell’abitacolo.
La linea del collo. Il naso. La bocca.
Improvvisamente non sono più padrone delle mie azioni. Mi avvicino velocemente alla macchina. Proprio mentre arrivo sento il rumore della marcia che viene ingranata.
Sta partendo. Adesso sono nel momento decisivo. Ho davanti una di quelle slidin’ doors di cui tanto si parla. Posso fermarmi e lasciarla partire. Invece lancio un grido.
“Eugenia.”
Lei ferma la macchina. E’ un po’ stupita di vedermi. Nasconde una lacrima nella manica del cappotto.
“Dammi uno strappo. Sono rimasto a piedi.”
Lei nicchia un po’. Ma non lascerò fuggire l’occasione. Salgo. Lei finisce di asciugarsi gli occhi e ingrana di nuovo la marcia.
Fuoco nelle mie vene, nei miei lombi, veleno nel sangue e nella testa, miele sulle labbra e aceto sulle ferite. Euridice. Donna oltre le donne, desiderio e fisicità. Euridice.
“Ti amo.”
La cosa deve averla sorpresa perché mi guarda con due occhioni infiniti e interrogativi.
“Non è il caso Arturo. E non è il momento.”
Sento la rabbia che monta dentro di me. E’ ancora innamorata di lui. Non vuole capire che soltanto con me può essere veramente felice. Insisto. Le parlo. La supplico di ascoltarmi.
Mente a me. Mente a se stessa. La afferro per un braccio e, mentre lei si divincola, la camicetta si strappa. La vista della sua pelle nuda mi fa vacillare. Lei spaventata si ritrae, ferma la macchina ed esce.
“Non ti avvicinare.” Grida.
Non capisce. Le corro dietro e la raggiungo facilmente. La tiro verso di me e le sue labbra si trovano a pochi millimetri dalle mie.
Adesso ne sono sicuro: anche lei mi vuole. La sento tremare.
Ma ancora si divincola. Mi lascio invadere dal suo odore e la stringo più forte.
Urla.
Riesce a liberarsi dalla stretta e scappa di nuovo. Allungo la mano e la afferro per un braccio.
Perde l’equilibrio e cade. Batte la testa sul marciapiede. Il suo sangue esce copiosamente da una ferita sulla nuca. Non si muove. Non si muove.
Sono a pochi passi da lei quando cade. Ma quando la raggiungo riesco a raccogliere solo il suo ultimo fiato. Lo racchiudo in un bacio. Lo sento scivolare sulle labbra. Sento le sue labbra immobili sulle mie.
Una donna che sta rientrando appare in fondo alla via. Mi vede. La vede. I suoi occhi raccontano tutto. Corre via gridando.
Tutti crederanno che sia morta per causa mia. Per colpa mia. Ma non capiscono? Io l’amo. Come posso essere stato la causa della sua morte?
Fuggo da quel posto. Ormai niente mi interessa più. Non ho intenzione di giustificare il mio amore.
Fuggo.
Senza destinazione.
Senza scopo.





57 anni (meno qualche ora) dopo che Aristeo ha iniziato il suo esilio
Torna il silenzio tra gli ulivi. Le croste mangiucchiate del formaggio vengono abbandonate sul tavolo.
“E ora andate al mare. O a giocare da qualche parte. Io sono stanco. Devo dormire.”
I bambini si allontanano. A metà tra l’eccitato e il deluso. Marco sogna già da qualche mese una donna che lui è convinto sia Euridice. Ha deciso di diventare poeta. Così, se la incontrerà, non ci sarà un Orfeo che la possa portare via.
Aristeo si appoggia nuovamente sul tavolo. Per qualche istante pensa alla sua vita passata, a quando aveva altri obiettivi. Ricorda la sua Euridice. E ricorda il giorno in cui morì.
Altre immagini della sua vita passata gli attraversano la mente: la pazzia di suo padre, il sole della Sardegna, la conversazione spiata dietro l’angolo del locale.
Si accomoda meglio. E’ fresco adesso. E’ l’ora di dormire.
Il vecchio sulla sedia sembra parte del torrido paesaggio.
Dorme. L’ombra di un ulivo gli concede insufficiente frescura. E infatti, spesso, ha brevi risvegli, durante i quali cerca una miglior posizione di appoggio sul tavolino di legno. Sul tavolo, del formaggio, una forma da cui manca una robusta fetta, e un vaso di miele.
L’uliveto che lo circonda appare sterminato, infinito. In lontananza il mare azzurro e il cielo, non ben demarcati dalla linea d’orizzonte, si confondono. Una nuvola inutile e bianchissima indugia lontana dal sole.
Nella semi incoscienza Aristeo vede per un attimo un volto vagamente familiare. I capelli, corvini, incolti, spettinati, occupano, anarchici, lo spazio intorno al cranio. Gli occhi, con quello sguardo vivo, marroni con un riflesso verde tenue, corrono continuamente a osservare ora quel particolare, ora uno nuovo.
Un sogno? Un ricordo?
E adesso, nel tempo che appare cristallizzato, Aristeo muore.





Dopo tutto quello che è stato raccontato finora. O anche prima di tutto quanto.
“D’accordo Ale. Una seconda versione, anche questa plausibile, di come le prime tre storie si possono collegare. E allora?”
“In primis ho ribadito un concetto che mi è caro. Orfeo ha fallito perché non si può sconfiggere la morte. Non lo dico esplicitamente ma lo affermo due volte. Nessuna storia sconfigge la morte. Lo può fare soltanto in senso lato, sopravvivendo al proprio autore. Che è quello che accade nel primo “Oppure”. L’esistenza di Aristeo è perpetuata nel ricordo di Marco. E sarebbe già una bella soddisfazione riuscire a sopravviversi.”
“Va bene. Ma non era questo il punto, giusto?”
“Sì invece. Il punto è questo. Vedi Albe, scrivo da una vita. E mi sono vagamente stufato di sentir dire che non si può scrivere niente di nuovo, che tutto è già stato scritto, che le trame possibili sono otto e cose di questo genere. Io sono convinto che si possa scrivere qualcosa di nuovo, invece. Questo è un tentativo in questo senso.”
“Ribadisco che questa è una sega mentale.”
“E io non ribadisco cosa penso della tua mammina.”
“La mi’ mamma tu la lasci fare, capito? Comunque, cosa ci sarebbe di nuovo in tutto questo?”
“Qui la cosa si fa difficile. Ho cominciato sabotando uno dei principi della narrazione: la sospensione di incredulità. Il lettore, dopo poche pagine, si è reso conto che non gli veniva raccontata la verità. Non dai personaggi, non da me. Così ha iniziato a dubitare. Con il passare delle pagine la storia è passata in secondo piano. Ho spostato l’attenzione dalla storia al mio ragionamento. Chi sta leggendo non è più interessato a cosa è successo veramente al protagonista. Vuole soltanto capire dove vado a parare. A questo punto sono io il protagonista.”
“Ho qualche dubbio sulla frase “Chi sta leggendo”. Dubito che esista qualcuno che possa voler leggere questa roba. Poi, in ogni caso, il tuo è un ragionamento astruso. Nessuno avrà la voglia di leggere. Senza note o senza qualcuno che spieghi quel che vuoi dire chi vuoi che faccia la fatica di seguirti? Onestamente io mi sto incominciando a smerigliare i coglioni.”
“Grazie per la tua attenta ricerca di un eufemismo che potesse non ferirmi. Ma hai ragione. Mi sa che dovrò inserire nella narrazione un qualcosa a mo’ di spiegazione. Mi dispiace non aver registrato tutto quello che ci siamo detti. Sarebbe stato adatto.”
“Poi c’è un’altra cosa, Ale. Cosa c’entrano Orfeo e Euridice?”
“Poco, in effetti. Infatti pensavo di intitolare il tutto “Orfeo e Euridice sono una buona scusa”. Ma forse è un po’ lungo.”
“Sega mentale attirerebbe di più.”
“Come la tua mammina.”
“Tu la mi’ mamma tu la lasci fare, capito? Comunque non puoi lasciare tutto così. Le storie devono avere un finale.”
“Si. Su questo sono d’accordo. Infatti è previsto un ultimo capitolo. Non l’ho ancora scritto ma, se non ti metti a interrompermi ogni due minuti, te lo racconto.”
“Almeno tre interruzioni concedimele.”
“Facciamo una e va bene. Visto quant’è meglio essere amico e socio sostenitore dell’autore invece che lettore semplice?”
“Su questo avanzo i miei dubbi.”
“Dai, ascolta. Sai che, dopo la “seconda morte” di Euridice, Orfeo inizia a essere ossessionato dalla sorte della donna, la canta continuamente, ne invoca sempre il nome, finché le Menadi, offese dai continui rifiuti che Orfeo oppone alle loro profferte d’amore, decidono di averne abbastanza e lo uccidono. Inoltre spiccano la sua testa dal tronco e la gettano nel fiume Ebro. Non contento, ridotto a una testa, Orfeo si perde nei flutti continuando a gridare il nome di Euridice. La testa viene poi ritrovata e riposta in una grotta. Qui inizia a predire il futuro. Tutto questo fa imbestialire Apollo, dio, padre di Orfeo, cui la notorietà della testa sottrae adoratori. Apollo decide quindi di affrontare il figlio e ordinargli di smetterla. La storia comincia qui. Orfeo, o meglio la sua testa, si trova nella grotta. Apollo sta per arrivare.”

La penombra contribuisce a rafforzare il senso di frescura che l’interno della caverna dona al visitatore. Nel centro dell’ampia sala naturale, posata su un piedistallo di roccia, la testa di Orfeo domina innaturalmente l’intero ambiente. Per raggiungerla ha dovuto percorrere un lungo corridoio. La temperatura è scesa lentamente. Raggiunta la testa, l’afa estiva esterna era un ricordo lontano. Era arrivato qui spinto soltanto da una domanda: “Quando finirà?”

Prima di abbandonare tutto, prima di iniziare il lungo, volontario esilio. Doveva sapere quando questo peso sul cuore verrà alleggerito. Doveva sapere quando smetterà di sognarla. Doveva sapere perché lui non l’ha salvata. 
Quante domande dietro quella sola che aveva intenzione di porre a suo fratello.
Non ha avuto bisogno di chiedere. Orfeo ha cominciato a parlare quando lui è arrivato. Ha parlato a lungo, in modo difficilmente comprensibile.

Le ultime parole gli risuonano ancora nelle orecchie: “…L’uliveto che lo circonda appare sterminato, infinito. In lontananza il mare azzurro e il cielo, non ben demarcati dalla linea d’orizzonte, si confondono. Una nuvola inutile e bianchissima indugia lontana dal sole.

E adesso, nel tempo che appare cristallizzato, Aristeo muore.”
Non c’è più niente da domandare. Niente da sapere. 
Il visitatore si alza e inizia il cammino che lo porterà a vivere una lunga vita. Piena di cose, di figli, di nipoti. Piena del ricordo di Euridice.
I passi che si allontanano sono l’unico rumore avvertibile nella caverna.

 La testa, innaturale nella sua posizione, socchiude gli occhi.

Ha mantenuto intatto l’aspetto che aveva quando venne divelta dal resto del corpo. I capelli, corvini, incolti, spettinati, occupano, anarchici, lo spazio intorno al cranio. Gli occhi, con quello sguardo vivo, marroni con un riflesso verde tenue, corrono continuamente a osservare ora quel particolare, ora uno nuovo.
La barba, folta, comincia a imbiancarsi in corrispondenza del mento, sulla parte destra del volto. Che è il volto florido di un uomo che non soffre. Un neo, a destra, in piena guancia, ammicca nel punto in cui la peluria dirada. Il naso, sottile e piccolo, corre dritto, ben centrato nella faccia. Era bello Orfeo. Non come il fratello, certo. Ma bello.



“Stai cercando di descriverti, Ale?”

Sto raccontando a occhi chiusi. Così la voce di Alberto mi sorprende. 

“Sì.”
“Mi sa che sei un po’ troppo indulgente.”
“Ecco, così ti sei giocato l’unica interruzione che avevi. Comunque sì. La testa di Orfeo è la mia. Quella dell’autore, intendo. Ora stai zitto e fammi finire.”
“E chi fiata?”
“Mi hai fatto venire in mente che manca ancora un filo da riannodare…”
Fuori dal contesto giunge alla grotta una donna. Ha compiuto un lungo cammino dalla lontana Tracia fino alla grotta. Le forze la stanno abbandonando ma la vista del traguardo la spinge a continuare. Entra. E, come era avvenuto al visitatore che l’aveva preceduta, si sente vagamente rinvigorita. Compie alcuni passi giungendo a breve distanza dal termine del corridoio che si affaccia sulla grande sala.
L’arrivo di Apollo non è annunciato da lampi o scoppi di tuono. Giunge nella grande sala in silenzio.

“Padre…”

“Perché fai questo?” nella voce un’autorità sconosciuta agli uomini.
Orfeo non trova le parole per spiegare. Non c’è una spiegazione.
“Non posso farne a meno, padre. Devo farlo. Non so il perché. Era come se dovessi ancora terminare il mio compito.”
“Così facendo, Orfeo, mi arrechi danno.”
“Non era mia intenzione, padre. Dovevo finire.”
“Che cosa?”
“Non lo so.”
Negli occhi di Apollo non c’è traccia di rammarico, di comprensione.
“Adesso basta. Smettila.”
Fuori dal contesto Aglaonice, avvertendo che è terminato il motivo del suo esistere (soffrire?), svanisce (muore?).
La testa di Orfeo si tace. Improvvisamente, come se tutto il tempo trascorso e ingannato fosse giunto in quel posto, la testa si corrompe e diviene polvere.
“In definitiva, con questo cosa vorresti dire? Che sei il nuovo Orfeo e che non la pianterai finché non te lo ordinerà Dio in persona?”
“Quasi. Non proprio, Albe. Per dirla con Paolo Conte…


Finché Atahualpa,
o qualche altro Dio,
mi dirà:
“Descansate niño,
che continuo io.”


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